ARCHEOLOGIA…CHE PASSIONE!

La grande passione per l’archeologia mi ha invogliato a mettere mano a questa pubblicazione che non ha assolutamente la pretesa o la presunzione di essere un’opera rigorosamente scientifica su questo affascinante argomento; questo arduo compito è riservato e spetta ad altri, ben più esperti e titolati del sottoscritto.
La passione nacque dirompente ed irresistibile agli inizi degli anni Settanta, quando preparavo la tesi di laurea sulla storia degli Hirpini, assegnatami dal Prof. Ettore Lepore, titolare della cattedra di Storia Romana e Storia Greca presso l’Università Federico II di Napoli.
A quei tempi abitavo ancora ai Piani di Castel Baronia, domicilio storico della mia famiglia che era residente però a Carife ed ho sempre dato volentieri una mano ai miei genitori, impegnati nel duro lavoro dei campi. Appena potevo, quando preparavo la tesi, uscivo sui terreni circostanti, dopo che erano stati appena arati, e li percorrevo avanti e indietro assai lentamente: osservavo minuziosamente sul terreno ogni frammento, ogni indizio o segno che potesse far pensare ad un sito di interesse archeologico. I momenti più adatti per farlo erano quelli successivi ad una pioggia battente o dopo l’erpicatura del terreno per prepararlo alla semina, prima che nascesse l’erba o spuntassero i germogli del grano o di altri cereali, perchè era più facile camminare e tutto diventava più evidente: un pezzo di tegolone, un resto metallico, un frammento di vaso, un pezzo di intonaco, un frammento d’osso attirava immediatamente l’attenzione; mi chinavo per raccogliere ciò che aveva attratto la mia attenzione o la mia semplice curiosità ed osservavo attentamente il reperto rigirandolo attentamente tra le mani, alla ricerca di un elemento che facesse immaginare grandezza, forma e colore, se si trattava del frammento di un vaso. L’attenzione maggiore la destavano orli, fondi ed anse e quando li rigiravo tra le mani fantasia ed immaginazione si sbizzarrivano a dare forme ai vasi di cui erano parte, anche sulla base di reminiscenze da libri. Quando poi si rinveniva un frammento ben più significativo, perché magari aveva anche una decorazione o altri segni particolari, cosa questa che capitava assai spesso, l’emozione indescrivibile arrivava alle stelle; mi son capitati tra le mani frammenti di ceramica sigillata aretina (di questo tipo particolare di ceramica parleremo in altra parte di questo stesso lavoro) con sigilli che, se puliti con la saliva, risultavano chiari e spesso erano addirittura decifrabili, provocando grandissimo stupore e particolari sensazioni; spesso ho trovato sul terreno anche grossi frammenti di doli, che si erano spaccati già in antichità ed erano stati ricuciti con colate di piombo, che era stato fuso e colato magari direttamente in appositi incavi incisi profondamente nelle pareti del recipiente. L’emozione sicuramente più grande l’ho provata quando, notando qualcosa di verde sul terreno, ho raccolto quella che poi, sempre pulita con la saliva ed asciugata con un fazzoletto di carta, si rivelava essere una moneta e per giunta leggibile, cosa questa che purtroppo accadeva molto di rado: più spesso la moneta era stata corrosa dagli acidi del terreno, dalle intemperie e dalle ingiurie del tempo. Un giorno, forse per me particolarmente fortunato, mi trovavo a Piano d’Occhio, dove era stata già localizzata una vasta area archeologica, su cui con ogni probabilità sorgeva una grande villa rustica di epoca romana, abitata fin dall’epoca repubblicana; La villa aveva pavimenti a mosaico ed era dotata anche di impianti termali, come reperti di superficie ampiamente documentavano; frequentavo quel sito abitualmente e vi ritornavo più volte ogni anno, aspettando con una certa ansia l’aratura: appena entrato nell’area, che successivamente sarebbe stata sottoposta a vincolo di tutela grazie alla mia segnalazione alla Soprintendenza, notai subito, proprio in cima ad una zolla e in bella evidenza, una monetina di bronzo, che appariva in buono stato; la vidi, la fissai, ma non volli prenderla subito, per godere il più a lungo possibile di quella che per me in quel momento era proprio una…celestiale apparizione: con molta circospezione guardai intorno alla zolla sulla quale avevo avvistato la monetina…ma non vidi altro; presi delicatamente tra le dita quello che per me in quel momento era un vero e proprio tesoro, l’avvicinai alle mie labbra, la baciai, la inumidii con la saliva e la strofinai…sui pantaloni: si leggeva bene su di un lato “REGULUS PULCHER TAURUS”, mentre sull’altro si leggeva SC; ero emozionato e trepidante, il cuore batteva forte perché quella era la prima moneta leggibile che trovavo. In seguito consegnai la moneta al Prof. Johannowsky, riferì che si trattava di un quadrante in bronzo di Augusto a nome di Regulus Pulcher Taurus.

Moneta identica a quella trovata a Piano d’Occhio

Moneta identica a quella trovata a Piano d’Occhio

Contento e soddisfatto come non mai, in preda ad una grande e totale frenesia, procedetti oltre di qualche metro e nei pressi di un pezzo di pavimento con mosaico sconvolto e tirato fuori dall’aratro notai un tondino nerastro: pensai immediatamente ad una nuova moneta e, mentre mi chinavo per raccogliere l’oggettino per me ancora misterioso, mi chiedevo se la fortuna quel giorno avesse tolto la ben per guardare una volta tanto anche verso di me… ed era proprio così; non credevo ai miei occhi, e mentre la pulivo col sistema ormai collaudato la patina nerastra che avvolgeva la monetina svaniva pian piano, come per incanto, e si intravedevano ii tratti di quello che a prima vista sembrava essere un busto femminile, che portava i capelli acconciati in modo assai particolare; capii subito che la moneta era di argento e, come avevo già fatto qualche metro prima con l’altra, baciai anche questa, mentre il cuore batteva forte e mi arrivava in gola…cosa questa che può capire totalmente, giustificare e condividere in pieno solo chi nutre la stessa passione. Sul lato che portava  raffigurato il busto femminile si leggeva distintamente la scritta IULIA AUGUSTA, mentre sull’altro si leggeva PIETAS PUBBLICA.

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Tornato a casa consultai subito il catalogo “Monete Imperiali Romane” di Eupremio Montenegro – della Montenegro – Edizioni Numismatiche – Torino 1988, e al n. 2241 della pag. 208 dello stesso trovai la descrizione della moneta che avevo avuto la fortuna di trovare: si trattava di un denario di Giulia Domna, moglie dell’Imperatore Settimio Severo e madre di Geta e Caracalla, tra i quali tentò in tutti i modi di mettere la pace, senza peraltro riuscirci.
Le fonti tramandano che dopo la morte di Settimio Severo i due fratelli succedettero entrambi al padre, ma Lucio Settimio Bassiano, detto Caracalla per la tunica con cappuccio di origine gallica che era solito indossare, Caracalla non fu disposto a dividere il potere con il fratello Geta che, proprio dietro suo ordine, nel 212 d. C. fu ucciso tra le braccia della madre nel 212 d. C.. Divenne imperatore di Roma col nome di Marco Aurelio Antonino nel 211 e rimase tale fino alla sua morte violenta, avvenuta nel 217.
Secondo alcuni Caracalla fu uno degli imperatori pazzoidi che di tanto in tanto si susseguirono sul trono di Roma, e molti lo paragonano a Caligola, a Domiziano o a Commodo.
Nei giorni seguenti tornai ripetutamente a Piano d’Occhio e trovai ancora altre cose interessanti e significative, tra cui alcuni frammenti di stilum in osso, usato dai Romani per scrivere sulle tavolette cerate, l’arco di una fibula (spilla) in bronzo, alcuni frammenti di ceramica sigillata aretina ed un bellissimo vago in pasta vitrea. Anche questi altri reperti furono da me tempestivamente consegnati al Prof. Johannowsky.
In quel tempo condividevo la passione anche con il Prof. Salvatore Salvatore e con il Prof. Michele De Luca, anch’essi amanti con la stessa intensità di questo genere di ricerca: molte volte ci ritrovavamo insieme sotto il sole cocente a camminare per i campi alla ricerca di frammenti e testimonianze; spesso ci mostravamo l’un l’altro ciò che attirava la nostra attenzione e ne discutevamo con grande animazione, ne ricostruivamo il significato e la funzione e accrescevamo in questo modo le nostre conoscenze; chi ci vedeva in quei momenti aggirarci assorti e passare e ripassare a piccoli passi sempre nello stesso posto, in cuor suo certamente pensava che avessimo “perduto il ben de l’intelletto”. Qualcuno ci domandava se avessimo per caso perduto qualche cosa. Poi le vicissitudini e le contingenze della vita di ciascuno di noi, come spesso succede, hanno fatto in modo che ognuno prendesse, purtroppo, la sua strada e abbiamo continuato a nutrire questa passione e ad aggirarci in perfetta solitudine sui campi arati…ma non sono mancati gli incontri per parlare dei nostri ritrovamenti.
Ma torniamo alla tesi sulla storia degli Hirpini.
Fin dal primo momento il Prof. Lepore, morto nel 1990, mi suggerì di leggere ciò che avevano scritto sull’argomento gli studiosi e storici locali, ma di non tenerne troppo conto, in quanto erano animati spesso dal campanilismo e a portare, di conseguenza, in primo piano i propri luoghi di origine. Mi consigliò un approccio diretto agli autori classici e neoclassici e la lettura dei grandi trattati di storia romana.
Naturalmente bisognava seguire alla lettera il suggerimento di quello che sarebbe stato il relatore della mia tesi e non poteva essere altrimenti: presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, raccolsi e confrontai preliminarmente tutte le fonti ed incominciai a lavorarci sopra: il lavoro durò più di un anno ed alla fine esso risultò molto produttivo e formativo, facendo sorgere e maturare in me convinzioni e valutazioni personali sugli Hirpini e sulla loro storia.
Mi colpì immediatamente quanto avevano affermato alcuni studiosi e storici locali in merito alla impossibilità che Carife, il mio paese, potesse essere identificato come paese antico, in quanto nel suo territorio non era ancora venuto fuori nulla che, archeologicamente parlando, documentasse concretamente l’esistenza “ab antiquo” di questo importante centro della Baronia. Queste affermazioni, per me che conoscevo bene il territorio che mi aveva visto nascere, costituirono una vera e propria sfida da vincere: sulla base delle mie conoscenze potevo dimostrare che nei territori di Carife e di Castel Baronia c’erano, e come, vistose tracce archeologiche, che potevano documentare la frequentazione di essi da parte dell’uomo fin dai tempi più remoti.
Incominciai quindi a consultare tutto ciò che era stato scritto sugli Hirpini, sia dagli autori classici antichi sia da quelli appartenenti al Neoclassicismo, passando attraverso le opere monumentali scritte da Luigi Pareti, morto nel 1962, e da Gaetano De Sanctis, morto nel 1957. Consultai, com’era naturale, anche l’Enciclopedia Treccani e la “Realencyclopadie der classische Altertumswissenschaff”, una vasta e completa opera sull’antichità classica che porta il nome di Pauly-Wissowa. Molto utile fu consultare anche il “Dizionario epigrafico di antichità romane”, curato e date alle stampe nel 1900 dal napoletano Prof. Ettore De Ruggiero.
Il lavoro, grazie anche alla lusinghiera relazione del Prof. Lepore sulla tesi ed alle sue ottime valutazioni sui risultati raggiunti, fu premiato con l’attribuzione di ben 12 punti, che si aggiunsero direttamente alla media dei voti degli esami da me sostenuti negli anni precedenti. Membro della Commissione era anche il famoso archeologo Italo Sgobbo, deceduto nel 1993, scopritore tra l’altro ad Aeclanum delle quattro iscrizioni in lingua osca, tra cui quella famosa della dea Mefite.
Successivamente feci leggere la tesi al Prof. Werner Johannowsky, che la trovò molto interessante, soprattutto in relazione alla conferma dell’ipotesi, per altro già avanzata dal Mommsen e dal De Ruggiero, circa l’esatta ubicazione di Romulea nel territorio della Baronia; Werner mi incoraggiò ripetutamente a fare della mia tesi una pubblicazione, promettendomi di farne la presentazione. In quei tempi però ero completamente preso da altri e ben più urgenti impegni, che mi derivavano dalla mia carica di Sindaco pro-tempore del Comune di Carife.
Il mio lavoro, conclusosi nel 1972, si era avvalso, come ho detto in precedenza, anche di numerose e frequenti escursioni su di un territorio che conoscevo molto bene, in quanto, come già detto, vi ero nato e a quei tempi ancora vi abitavo.
La tesi si concludeva dicendo:
“…Non è stato possibile dire molto circa la topografia, mancando i risultati di un’indagine archeologica condotta su vasta scala. Abbiamo segnalato la presenza di un’area archeologica estesa a quasi tutto il contrafforte di Trevico e abbiamo sostenuto la tesi del Mommsen e del De Ruggiero, che sono propensi ad ubicare lungo questo contrafforte la Sub Romula/Romulea dei Sanniti/Hirpini, mentre molti studiosi sono propensi ad ubicarla a Bisaccia, e cioè ad una diecina di chilometri più a Est.
Ci auguriamo che la ricerca archeologica, finora limitata all’area della Mefite e ad Aeclanum, venga estesa anche alle altre località: solo così si potrà dire qualche cosa di più preciso su questo argomento.
Abbiamo tentato di stabilire quale sia stato il percorso di Orazio in territorio irpino e lo abbiamo stabilito con una certa sicurezza, conoscendo molto bene le località, gli ostacoli naturali della zona e le possibili scorciatoie.
Ma la storia dovrebbe avvalersi, oltre che delle fonti, che purtroppo non sono chiare a proposito degli Irpini, di tutte le scienze ausiliarie; purtroppo però per le nostre zone questo studio manca, in quanto l’area è emarginata e isolata dal resto del paese. L’Irpinia è una regione aspra e montuosa, tale da scoraggiare l’archeologo; ma noi ci auguriamo che in un futuro immediato il piccone del ricercatore possa contribuire a dare allo storico la possibilità di risolvere il problema degli Irpini in maniera più qualificata e precisa di quanto, con tutta la buona volontà, abbiamo potuto fare noi in questo studio sull’argomento”.
Qualche anno dopo quello che nella tesi era stato un semplice auspicio sarebbe diventato, per altri versi, una triste realtà: il tragico e disastroso terremoto del 23 Novembre accese un riflettore potentissimo sui nostri paesini arroccati sui monti e rasi al suolo, sulla povertà dignitosa della gente, esasperata dal ripetersi di tali eventi con cadenza tremendamente costante, ma mai rassegnata di fronte all’ennesimo tragico disastro.
La Soprintendenza negli anni del dopo terremoto dovette intervenire spesso e a lungo nel nostro territorio a causa delle emergenze archeologiche che il sisma aveva creato: si scavò un po’ dovunque nella vasta area colpita dall’evento ed i risultati in qualche caso furono straordinari, come a Carife e a Castel Baronia: gli scavi intrapresi nell’ambito di ben tre vaste necropoli sannitiche permisero di recuperare centinaia di tombe, i cui reperti permisero di capire molto di più del modo di vivere di questa fiera gente e del grande livello culturale raggiunto dai Sanniti/Hirpini.
Il territorio della Baronia risultò essere stata abitata fin dai tempi del Neolitico, e ciò era sicuramente dovuto alla presenza dell’acqua, presente abbondante lungo il contrafforte di Trevico
La formazione geologica del contrafforte, come abbiamo già detto in precedenza, si fa risalire all’era terziaria o cenozoica, caratterizzata dall’assunzione della forma attuale da parte dei continenti e degli oceani e dal grande sviluppo delle specie progenitrici della fauna e della flora oggi viventi.
Il contrafforte è composto in massima parte da puddinghe plioceniche, depositi conglomeratici costituiti da frammenti rocciosi arrotondati (ciottoli e ghiaie), sovrapposti o intercalati a sabbie e argille; esse costituiscono un ottimo acquifero e non mancano quindi falde e sorgenti di acqua potabile e la sua abbondanza non poteva non favorire, sin dai tempi più antichi, le frequentazioni e gli stanziamenti dell’uomo in un territorio che non era diviso e ben demarcato come oggi.
Dal punto di vista idrologico infatti, in base ai dati del servizio idrografico del Ministero dei Lavori Pubblici del 1942, 1953 e 1957 le sorgenti per uso potabile dei monti della Baronia, delle quali le due più importanti Tufara e Acquara nascono presso Castel Baronia, al contatto tra i conglomerati e le sabbie argillose, erogavano complessivamente 71 litri al secondo. In antichità la portata complessiva doveva essere ben maggiore. Le sorgenti Tufara ed Acquara si trovano a qualche centinaio di metri dalla strada che percorreva, e tuttora percorre, Serra di Marco e sicuramente costituivano una tappa o una sosta obbligata per tutti, compreso il bestiame che aveva continuamente necessità di abbeverarsi. Del resto quando il Consorzio Idrico Alto Calore provvide alla captazione ed alla sistemazione delle sorgenti si rinvennero opere e manufatti di epoca romana.
L’acqua era un elemento indispensabile alla vita pastorale durante i trasferimenti del gregge, e unitamente ai buoni pascoli che la pianura ufitana e le sue colline offrivano, sicuramente guidarono e determinarono i percorsi nel nostro territorio.
Fra i sentieri di derivazione del tratturo, il più nutrito di testimonianze archeologiche è Serra di Marco, al confine con il Comune di Carife, tra il Vallone S. Leo a Sud-Est e il Vallone Macchioni a Nord-Ovest. Si tratta di necropoli sannitiche e romane, di grandi e piccole ville della stessa epoca, o di semplici impianti rustici; non mancano materiali anche di transizione dal tardo impero ad epoca altomedievale.
Abbiamo detto in precedenza che sempre da Serra di Marco, dall’abitazione ormai completamente demolita appartenuta al compianto Emilio Lungarella, provengono le due iscrizioni riportate ai numeri 1412 e 1413 del Volume IX del C. I. L..
Le due lapidi, che erano murate sulla facciata della casa, furono recuperate tra le macerie dopo il terremoto del 1980 e ora si trovano entrambe presso il Municipio di Carife; ma di queste e di un’altra iscrizione parleremo inun altro capitolo..
Ed ora raccontiamo una strana vicenda: nel gennaio del 1895, in proprietà Capobianco a Serra di Marco, fu rinvenuto un tesoretto monetale, posto in due recipienti fittili con decorazione bicroma a fasce, non meglio indentificabili (Cfr.Giulio De Petra 1896, pag. 210…”due vasetti coloriti con fasce nere e rosse”) (1). Si trattava complessivamente di 116 monete: 13 d’argento e 103 di bronzo e di queste ultime 17 erano fuse e 86 coniate.
Le monete furono immesse nelle collezioni del Medagliere del Museo nazionale di Napoli, ma successivamente se ne son perdute le tracce e forse è andato disperso (!?).
Come data di occultamento di questo tesoretto è stato proposto il tardo III° secolo a.C., in relazione alla guerra annibalica.
La ricerca archeologica, della quale parleremo dettagliatamente più avanti, ha poi messo in luce un’importante necropoli sannitica, ubicata su una cresta a poche centinaia di metri a sud delle sorgenti. La campagna di scavi, condotta nel 1983 in proprietà Primavera, ha restituito 135 tombe, quasi tutte a fossa semplice e databili per la maggior parte nel V° secolo a.C..
Nel 1982 si tenne a Carife la prima mostra di reperti recuperati durante gli scavi effettuati in questo territorio ed in quello di Castel Baronia: di questi due paesi si parlò a livello locale, nazionale e mondiale. All’inaugurazione della mostra, che ebbe un grande successo, oltre al Prof Werner Johannowsky ed alla sua equipe di collaboratori, era presente anche il Prof. Lepore, e fu quella un’occasione davvero ghiotta per aggiornare le conoscenze che fino ad allora si avevano su questa fiera gente.
Qualche hanno dopo, e precisamente il 22 Marzo 1986, si tenne ad Ariano Irpino un Convegno di grande livello sui beni culturali e sugli scavi effettuati proprio in quel periodo nel nostro territorio. Fu quella una grande occasione per presentare i risultati eccezionali della ricerca archeologica, che permisero di ridisegnare ed ampliare le conoscenze sui Sanniti/Hirpini. Intervennero al Convegno illustrissimi e noti studiosi, che portarono il loro contributo di conoscenze e di esperienze maturate sul campo: citiamo tra gli altri il Prof. Adriano La Regina, il Prof. Ettore Lepore, il Prof. Werner Johannowsky e la Dott.ssa Giovanna Gangemi.

NOTE:

1. Giulio De Petra fu tra i più stretti collaboratori di Theodor Mommsen per i suoi studi sull’ Italia meridionale.

Alcuni amici di Carife (Salvatore Salvatore, Michele De Luca ed il compianto Stefano Melina) scrissero nel frattempo una lettera al Prof. Edward Togo Salmon e lo misero al corrente delle nuove scoperte, che in larga parte confermavano ciò che l’illustre studioso inglese aveva ipotizzato e sostenuto nella sua fondamentale opera intitolata “Samnium and the Samnites”, pubblicata a Cambridge dalla University press il 2.9.1967.
L’illustre storico, ormai in pensione, viveva in Canada e per il Convegno annuale dell’Associazione degli Studi Classici, che si tenne il 28 Maggio 1988 a Windsor-Ontario, predispose una relazione sulle nuove scoperte archeologiche in terra irpina e la intitolò assai significativamente “Ex Irpinia semper aliquid novi” (Dall’Irpinia sempre qualche cosa di nuovo). Purtroppo proprio in quell’anno il Prof. Salmon morì e fu la sua vedova, con grande cortesia e gentilezza, ad inviare ai Nostri copia di quella relazione, che fu pubblicata integralmente nel 1990 nel n. 1 della Rivista” VICUM”, diretta proprio dal Prof. Salvatore Salvatore.
Ma veniamo al presente lavoro: esso, come detto nella presentazione, raccoglie e racconta più di quarant’anni di esperienze e di conoscenze nel campo dell’archeologia del nostro territorio, maturate sul campo, a contatto diretto con studiosi ed archeologi che curarono e diressero gli scavi in quegli anni, e soprattutto con il compianto Prof. Werner Johannowsky, pioniere assoluto ed indiscusso della ricerca archeologica in Baronia, venuto a mancare nei primi giorni del 2010.
I risultati degli scavi non furono però sempre pubblicati tempestivamente e le nuove ed eccezionali conoscenze acquisite circolarono spesso solo tra una ristretta cerchia di studiosi, archeologi ed addetti ai lavori e non furono mai “socializzati” o divulgati compiutamente.
Oltre al Prof. Johannowsky, che ha scritto diversi articoli sugli scavi effettuati nel nostro territorio, fu la Dott.ssa Matilde Romito, presente a lungo sugli scavi, ad occuparsi organicamente nel 1995 degli straordinari rinvenimenti effettuati negli anni Ottanta nei territori di Carife e di Castel Baronia: proprio in quegli anni conseguì il Diploma di Specializzazione in Archeologia con una tesi, successivamente pubblicata dall’Editore Laveglia, dal titolo “Guerrieri Sanniti e antichi tratturi nell’alta valle dell’Ufita”.
L’ottimo lavoro riassume i risultati degli scavi effettuati a Carife nell’ambito delle Necropoli dell’Addolorata e di Piano La Sala; la pubblicazione della Romito contiene anche disegni, planimetrie, foto, elenchi precisi dei reperti recuperati tanto nelle 23 tombe dell’Addolorata, quanto nelle 13 emerse a Piano La Sala in una prima fase di scavo in quest’area. Sono riportati anche disegni e foto dei cinturoni di bronzo rinvenuti durante lo scavo, e ciascuno è descritto ed esaminato nell’ambito della sua tipologia e della variabilità e tipologia dei ganci. Assai puntiglioso è l’elenco di tutti i siti interessati dalla presenza di elementi di interesse archeologico, in relazione a tutta la Valle dell’Ufita, redatto con la collaborazione dello scrivente.
Successivamente, nel 1995, sempre la Romito, diede alle stampe a Napoli , con i caratteri di Electa, un’opera intitolata “I cinturoni sannitici”, interessantissima e fondamentale per chi voglia approfondire la conoscenza ed il significato di questo particolare oggetto di abbigliamento indossato dai maschi presso i Sanniti/Hirpini.
Nella pubblicazione sono presenti descrizioni analitiche e confronti con tutti i cinturoni fino ad allora rinvenuti e, per quanto riguarda l’Italia, l’elenco è dato regione per regione; la Campania per numero di rinvenimenti prevale su tutte.
Nel testo sono anche riportate le bellissime ed interessantissime diapositive a colori delle analisi metallografiche eseguite sui cinturoni presso il Centro di Restauro di Coverciano (Firenze).
La Dott.ssa Giovanna Gangemi, anche lei quasi sempre presente sugli scavi, ha pubblicato diversi articoli sulle riviste specializzate, soprattutto in relazione alla preistoria, ed ha relazionato in vari convegni sui risultati degli scavi condotti soprattutto a Carife e a Castel Baroni; Ebbe anche l’incarico di curare la voce “Valle dell’Ufita e del Miscano”nell’Enciclopedia dell’Arte Antica”, edita da Treccani. Più avanti riportiamo integralmente il suo articolo, che, oltre ad essere corredato da una ricca bibliografia, offre una panoramica completa delle indagini archeologiche effettuate in queste due importanti valli “intercomunicanti”.

Un’opera altamente meritoria è stata svolta negli anni dall Prof. Salvatore Salvatore che, nella veste di giornalista, con grande passione e competenza, ha scritto e pubblicato numerosi articoli sulla stampa provinciale, regionale e nazionale, ed ha così costantemente contributo a diffondere la conoscenza delle scoperte archeologiche nei territori di Carife e di Castel Baronia: studiosi e curiosi, profani ed appassionati di archeologia e di storia, per la prima volta, hanno conosciuto da vicino il nostro affascinante ed importante territorio, unitamente al suo ricco patrimonio archeologico che, come abbiamo visto, spazia dalla preistoria all’alto medioevo.

NOTE:
SAFINIM, pag. 237-259.

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