CARIFE E SAN GERARDO

Anche a Carife è viva la devozione e la venerazione verso San Gerardo e la popolazione, con in testa il parroco Don Gerardo Ruberto, ha accolto gioiosamente la statua “pellegrina” con le Reliquie del Santo, amato da ricchi e poveri, da nobili e borghesi, da umili e derelitti: tutti facevano a gara per ospitare il malaticcio ed esile fraticello Redentorista.
Ricordo distintamente la presenza costante di questo Santo in casa dei miei nonni, sui Fossi, come si chiama il Centro Storico di Carife, allora popolatissimo, oggi quasi deserto: arrivava con la Rivista/Periodico che portava il nome del Santo, puntualmente recapitata dal postino, che bussava alla porta, entrava per scambiare qualche parola con mio nonno, beveva volentieri un bicchiere di buon vino in sua compagnia e parlava con lui del più e del meno davanti ad un bel fuoco acceso, attizzato e ravvivato al momento nel camino, mentre fuori c’era la neve e soffiava forte la tramontana.
Erano gli anni Cinquanta del secolo scorso, vivevo con i nonni che mi volevano un gran bene; frequentavo in paese a quel tempo prima la IV e poi la V elementare, mentre le prime tre classi le avevo frequentate in una pluriclasse di campagna, dove abitavano i miei genitori.
A Carife a quei tempi non si vendevano giornali e ovviamente non c’era ancora la televisione; oltre a leggera la Rivista, l’unica lettura per me e per mio nonno era quella dell’almanacco Barba Nera, edito da Campi a Foligno, dove era possibile leggere settimanalmente e per tutto l’anno le poco attendibili previsioni del tempo (mio nonno però ci dava grande credito…) e i suggerimenti utili per i lavori da fare in campagna. Il Colonnello Bernacca sarebbe arrivato molti anni dopo…con la televisione e con Carosello.
La Rivista San Gerardo naturalmente arrivava anche in molte altre case di Carife, anche se non era richiesto il pagamento di un regolare abbonamento: mio nonno aveva fatto un’offerta una volta, andando pellegrino a Materdomini, e quel giornale, dopo la sua morte, continuò ad arrivare a me fino agli anni Ottanta del secolo scorso, perché portavo il suo nome…anche se il cognome era inesatto. Molte vecchie copie di essa, ricordo, erano ancora presenti nella casa ormai vuota e disabitata quando, a seguito del terremoto del 23 novembre 1980, crollò e fu demolita, portandosi via tanti miei ricordi, proprio mentre ero Sindaco del paese e, in tale veste, dovetti essere io stesso, con il cuore in pena, a doverne ordinare la demolizione.
A me piaceva leggere di questo Santo, fuggito rocambolescamente dalla finestra di casa per seguire la sua prepotente vocazione: si era aiutato con una corda ricavata annodando delle lenzuola e alla mamma aveva lasciato un biglietto in cui aveva scritto: “Mamma perdonami, vado a farmi santo”. La sua vita mi appariva allora come un vero e proprio romanzo di avventura e la fantasia volava, perché eè proprio la fantasia il parco giochi più bello, più grande e più divertente al mondo.
Mi piaceva leggere degli episodi e delle difficoltà che avevano punteggiato e caratterizzato la sua vita e la sua esistenza, piena di rischi e di avventure, cose che affascinavano ed eccitavano la mia fantasia di ragazzo; mi piaceva leggere di coloro che avevano lasciato questo mondo, di quelli che si affidavano a San Gerardo e di quelli, tanti, che lo ringraziavano per una grazia o per un aiuto ricevuto; mi piaceva guardare i volti e le foto in tempi in cui scarseggiavano le macchine fotografiche, i volti dei bambini che le mamme affidavano al Santo.
Mi colpivano la sofferenza e la disponibilità del Santo ad aiutare gli altri, specialmente i meno fortunati, gli ammalati e i contadini, al cui mondo appartenevano, dignitosamente, anche i miei nonni, i miei genitori ed io stesso.
Gerardo Maiella era rimasto letteralmente affascinato dai padri Redentoristi, appartenenti alla Congregazione fondata dal Vescovo e Dottore della Chiesa Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, prima avvocato e poi religioso, figlio di un nobile cavaliere di origini pugliesi. Sant’Alfonso fu autore, tra l’altro, di celeberrime melodie universalmente conosciute e cantate, tra cui “Tu scendi dalle stelle” e “Quannn’ nascette Ninno”, quel Bambinello con il quale Gerardino spesso da piccolo parlava e che gli offriva perfino il panino quando aveva fame.
Il ragazzo, cagionevole di salute, definito persino “inutile” da qualcuno, era fermamente intenzionato a seguire la sua vocazione e aveva già bussato invano, forse a Santomenna, al convento dei Cappuccini, che non lo avevano voluto tra di loro, perché ritenuto troppo gracile e debole per affrontare la dura regola e la vita monastica imposte da San Francesco ai suoi frati.
Anche i Padri Redentoristi avevano cercato di distoglierlo da questo suo proposito, ma si dovettero piegare di fronte alle insistenze ostinate di quel ragazzo sempre sorridente: alla fine lo accettarono e il 16 luglio 1732 coronò il suo sogno e pronunciò i voti.
Nei conventi in cui fu destinato si dedicò alle mansioni più umili, pregando e facendo penitenza; fu persino cameriere del Vescovo a Lacedonia. Amico dei poveri e dei contadini, Frate Gerardo percorreva tutte le contrade anche come questuante, facendosi apprezzare ed amare da tutti per la sua giovialità, per la sua bontà e per il suo perenne sorriso: molti lo consideravano e lo veneravano già come santo.
Fu particolarmente attivo nel corso del 1754, anno di grande carestia. Il suo “campo di azione” si estendeva a tre Regioni: Campania, Puglia e Basilicata, di cui il 21 aprile 1994 sarebbe stato proclamato Santo Patrono da S. S. Giovanni Paolo II. L’anno dopo, il 16 ottobre 1755, ora giorno della sua festa, consumato dalla tisi, moriva a soli 29 anni a Materdomini, frazione di Caposele, in un piccolo santuario mariano, dedicato appunto alla Mater Domini, già meta di molti pellegrini e affidata proprio alle cure dei Redentoristi.
Gerardo, che diceva sempre “La fede mi è vita e la vita mi è fede” , “Volontà di Dio in cielo, volontà di Dio in terra”, fu dichiarato beato da Papa Leone XIII il 29 gennaio 1893 e Papa Pio X lo canonizzò l’11 dicembre 1904. La causa di beatificazione era iniziata, in ritardo, a 80 anni dalla sua morte.
Il periodo in cui Gerardo visse fu un periodo difficile e tormentato, funestato da carestie, da pestilenze e da eventi luttuosi, come il tragico terremoto del 29 novembre 1732, che distrusse molti centri della nostra zona e tra questi anche Carife, che fu praticamente rasa al suolo, unitamente alla Chiesa Collegiata di San Giovanni Battista.
San Gerardo fu proclamato Santo in uno dei momenti più tristi della nostra storia: l’emigrazione verso le Americhe falcidiava la popolazione italiana, soprattutto quella dell’Italia Meridionale; molti bambini non sopravvivevano alle malattie ed alla povertà e molti chiamavano Gerardo i propri figli, in ossequio al Santo, da cui si aspettavano miracoli ed un aiuto concreto per la salvaguardia del raccolto, in un mondo prevalentemente contadino.
Il Prof. Roberto Cipriani, docente universitario e sociologo italiano, in un suo importante saggio intitolato “San Gerardo e l’odierna devozione popolare”, pubblicato dall’Università agli Studi Roma Tre, si domanda:
“Ha ancora un seguito la devozione popolare verso Gerardo Maiella, il laico redentorista nato nel 1726 e morto or sono due secoli e mezzo? Può una forma di religiosità popolare durare così a lungo dopo la fine dell’esistenza terrena di un personaggio che da vivo tanto aveva attratto per le sue doti di carità, per il suo messaggio di solidarietà, per la sua pietà semplice e didascalica, per la sua opera di costante misericordia verso i poveri, i diseredati, gli emarginati?”.
La risposta dell’illustre Sociologo non poteva e non può che essere affermativa: basta recarsi a Materdomini in un giorno qualunque ed assistere all’arrivo di tanti pellegrini e fedeli provenienti da ogni parte o aggirarsi per i paesi e chiedere della devozione a San Gerardo, presente ovunque nel mondo in cui ci siano Italiani originari dei luoghi percorsi dal Santo di Muro Lucano o che ne abbiano semplicemente sentito parlare.
In passato, ma anche oggi, sebbene sempre più sporadicamente, si organizzavano pellegrinaggi sulla tomba del Santo a Materdomini. Annualmente, di maggio o di giugno, nelle nottate di luna piena e in gruppi di più di 100 persone, si partiva a piedi da Carife, partendo tutti insieme allegri e vocianti verso le nove di sera dalla Chiesetta oratorio dell’Addolorata, con la gioia negli occhi e cantando le canzoni che la religiosità popolare e la fantasia degli autori ormai da tempo scrivevano, cantavano e diffondevano. Quella volta si presentò un signore anziano con un asino tirato con le redini: molti depositarono i loro piccoli bagagli nella bisaccia.
A organizzare i pellegrinaggi erano a quei tempi (si parla degli anni Cinquanta del secolo scorso) quasi sempre Rocco Leone, soprannominato “Zavardone”, e Salvatore Minieri detto “Turiello”.
Si scendeva verso l’Ufita per la Via delle Fornaci/Aitoro e si attraversava il fiume Ufita (“la iumara”) sotto “L’Alivita” (non c’erano ponti allora). Mettevamo, uno dietro l’altro, i piedi sui sassi traballanti che affioravano dall’acqua e che qualcuno provvedeva, periodicamente, a sistemare; a quei tempi l’acqua nel fiume scorreva ancora limpida e rumorosa tra i sassi, e insieme ai nostri cugini io e mio fratello catturavamo con le mani anche parecchi pesci: a volte lo facevano anche gli adulti; poi gli inerti furono selvaggiamente prelevati, il fiume fu depredato e quasi distrutto e stravolto e l’acqua diminuì sempre più’, fin quasi a sparire del tutto, tranne che in inverno.
Quella notte l’acqua rifletteva anche i raggi di una splendida luna piena, già alta in cielo verso il Formicoso. Risalimmo a Guardia dei Lombardi per Santa Croce, una strada in salita fiancheggiata da siepi, come lo erano un po’ tutte quelle che percorremmo quella notte. Sempre più penetrante giungeva alle nostre narici l’odore della Mefite di Rocca San Felice. Costeggiammo l’antico mulino ad acqua dei Di Stasio, alimentato dalle sorgenti del Fredane, e poco dopo superammo Sant’Angelo dei Lombardi, che si vedeva sulla collina in alto a sinistra, e ci dirigemmo verso Lioni. Chi conosceva bene la strada faceva l’andatura ed il gruppo spesso si sgranava e ci si divideva in piccoli capannelli in cui si ragionava del raccolto, si parlava del più e del meno e spesso si facevano anche pettegolezzi sugli avvenimenti e sulle persone di Carife.
Ci fermammo all’alba nelle vicinanze di una chiesetta collocata su di una rupe e lì, in un posto che conoscevano come “Lu scauzaturo”, molte donne si tolsero le scarpe per poi proseguire, scalze e doloranti, su di una strada sterrata e costellata di sassi fino al Santuario, che ormai si vedeva distintamente. Quella chiesetta suscitò in me una grande meraviglia ed ammirazione.
Intanto confluivano anche altri gruppi e di lontano giungevano le note di una banda musicale.
Gli organizzatori, tramite il servizio postale, avevano preavvertito i frati del nostro arrivo. I ricordi da bambino riaffiorano prepotentemente: con Aurelio Fierro, conterraneo di Montella, cantavamo “Sono pellegrino, non risento del cammino, San Gerardo Mio prega per me”, oppure “San Gerardo quann’era guaglion’ faceva la Cumunion’…ed eravamo felici, mentre altri gruppi, che arrivavano da ogni direzione si univano a noi e mescolavano il loro canto al nostro, con inflessioni dialettali diverse. Il canto cresceva di intensità man mano che ci si avvicinava al Santuario, il cui campanone già faceva sentire i suoi rintocchi.
A volte erano altre persone a venire incontro al nostro gruppo
Ed eccola finalmente la bella Chiesa di Materdomini (quella vecchia, la nuova ancora non c’era). Molte persone, soprattutto donne, salivano scalze e in ginocchio la lunga scalinata che portava all’ingresso della Chiesa, dov’erano custoditi i resti mortali del Santo. Di lontano arrivava distintamente alle nostre orecchie il fruscìo dell’acqua delle sorgenti di Caposele.
Tutti insieme ascoltammo la Messa e chi poteva e voleva si confessò e fece la Comunione.
Ricordo che, finita la Messa, in gruppetti, ci sedemmo per terra a mangiare la colazione che avevamo portato con noi: mia nonna aveva preparato una bella e profumata frittata con i peperoni secchi e l’aveva messa tra due fette di pane, che mia madre aveva fatto in campagna…non avrei mai dimenticato il sapore di quel panino…
Visitammo poi il museo e la cella di San Gerardo: io rimasi molto impressionato nel vedere le macchie del sangue del Santo su di un fazzoletto, a dimostrazione della sua malattia e delle sue sofferenze.
E’ ancora viva in me l’impressione che mi fece trovarmi in un salone immenso, sul lato sinistro della Basilica se ricordo bene: c’erano tanti letti e lì trascorremmo la notte. Stanco come ero, e con me anche gli altri, dormimmo come ghiri.
Il giorno dopo ci svegliammo di buon mattino, ascoltammo la Messa e ci incamminammo per la via del ritorno: una bambina che era con noi, stanchissima, fu fatta salire sull’asino e fece un po’ di strada sul suo dorso.
Altre volte si andava a bordo di camions adattati a trasporto di persone: seduti su scanni di fortuna, sballottati a destra e a manca, andavano per il Formicoso in un viaggio avventuroso e spesso scomodo, ma la soddisfazione era grande: una volta ci sono andato da piccolo con mio padre e mia madre e ricordo ancora quel viaggio.
Ricordo la prima volta che arrivai a Materdomini: fui affascinato dalle montagne che sovrastano Caposele e, soprattutto, da un maestoso palazzo con tante finestre: non ero mai uscito da Carife e non avevo mai visto nulla di simile. Solo un paio d’anni dopo (era il 1955 e di anni ne avevo ormai undici…), a Caserta, sarei entrato in un edificio ancora più grande: l’Istituto Salesiano, dove avrei passato otto anni, tra i più belli della mia vita: lì avrei conosciuto Don Bosco e San Domenico Savio, un santo morto a 14 anni della stessa malattia di San Gerardo, la tisi, che in passato falcidiava la popolazione.
C’era tanta gente quel giorno a Materdomini e tante bancarelle che vendevano di tutto, immagini del Santo, giocattoli mai visti, lunghe filze di nocciole (r’ nucedd’ r’ Sant’ Larienz’), arachidi (r’ nucedd’ american’) grossi taralli zuccherati, biscotti, “copete” (torroncini avvolti in carta colorata) torroni a pezzi sistemati l’uno sull’altro: guardavo con gli occhi sgranati e non riuscivo a capire come mai la gente comprasse fagioli, ceci, origano, formaggio, tutte cose che a casa nostra non mancavano. Conobbi e assaggiai per la prima volta nella mia vita le dolci e croccanti carrube, che mio nonno chiamava fasc’nedd’ ed anche sciuscelle. Mangiai anche certi saporitissimi e profumati biscotti di colore marrone, che mia madre, originaria di Sturno, chiamava “tatuni”. Ancora oggi ne vado pazzo, pur essendo diabetico, e ogni volta che ritorno con la famiglia a Materdomini li cerco e li compro: piacciono a tutti e mi ricordano l’infanzia.
Sarei ritornato altre volte n seguito a far visita a San Gerardo; negli anni Settanta, ormai sposato e già padre, con mia moglie, portammo a benedire la macchina nuova e con noi c’era nostra figlia Clotilde (il nome di mia madre…). Avemmo modo di conoscere un frate gentilissimo, disponibile ed affabile e rinnovai anche l’abbonamento alla Rivista…questa volta con il cognome giusto. Conserviamo ancora, tra i ricordi più preziosi, la foto di nostra figlia su di un finto cavalluccio macchiato, scattata da un fotografo con una di quelle fotocamere di una volta.
Il disastroso terremoto del 23 novembre 1980, purtroppo, cancellò molto di quell’atmosfera magica che avvolgeva il Santuario: le tante comodità che oggi si hanno a Materdomini, gli spazi immensi che circondano la nuova e moderna Chiesa, la comodità degli accessi stradali, il fruscìo dell’acqua che si sente sempre di meno (non perché io sia diventato sordo per l’età…) hanno un po’ offuscato ed appannato l’incanto che una volta circondava il Santuario: solo la facciata della vecchia Basilica, la sua scalinata ed i tanti pellegrini che si aggirano per la frazione di Caposele evocano il posto dell’anima…che vidi da bambino e ricordano che il fascino esercitato da San Gerardo è immutato nel tempo.
Pellegrinaggi in camion, nel secolo scorso, se ne facevano anche al santuario Di San Michele Arcangelo sul Gargano, Santo al quale Gerardo era molto devoto, e al Santuario dell’Incoronata a Foggia e anche in queste occasioni, tutti insieme si cantava, soprattutto quando ci si inerpicava su per le balze e le curve che portavano a Monte Sant’Angelo. Poi ognuno ci sarebbe andato da solo…con la propria macchina, ma tutto sarebbe stato diverso.
Intanto San Gerardo, il Santo della sofferenza offerta a Gesù, il Santo dei poveri e degli umili, paragonabile a San Francesco, a Padre Pio, a Suor Teresa di Calcutta, ecc., “l’affamato insaziabile della volontà divina”, è stato universalmente sempre più invocato come protettore delle donne incinte e, di conseguenza, dei bambini, cui spesso in un recente passato veniva fatto indossare l’abitino di San Gerardo (A volte lo hanno indossato anche le donne adulte).
Una petizione popolare, firmata da migliaia di fedeli e devoti e da centinaia di Vescovi, ha chiesto ed ottenuto la proclamazione di San Gerardo a Patrono delle mamme e dei bambini.
Più di un milione di pellegrini visitano annualmente la sua tomba nella vecchia basilica e ascoltano la messa nella nuova chiesa moderna, in cui campeggia e sovrasta una statua grandiosa del Cristo Redentore sospesa nel cielo.
In un ambiente accogliente e silenzioso, che invoglia a pregare, talora accompagnati dalle musiche provenienti da un bellissimo presepe “napoletano” si aggirano i fedeli pellegrini alla ricerca di se stessi, vogliosi di affidare a San Gerardo le proprie speranze, il proprio dolore e le proprie sofferenze, convinti che il Santo non mancherà di intercedere presso la Mater Dei e presso il Redentore, che lui tanto amò: un posto dell’anima insomma…
In un mondo che corre ormai troppo in fretta, che vede tanti disperati mettersi in mare su mezzi di fortuna per raggiungere nuovi lidi, sperando di dare un futuro diverso ai figli o imprimere una svolta alla propria vita, un mondo in cui ne succedono di tutti i colori, che usa violenza alle donne, che ha legalizzato l’aborto, un mondo in cui tante donne lo fanno ancora clandestinamente o abbandonano i propri neonati in un cassonetto dell’immondizia, fa davvero tanta tenerezza ed è sconvolgente, ma nello stesso tempo confortante, commovente e meraviglioso, entrare nella “Sala dei fiocchi”, allestita nel Santuario, e vedere le pareti, e persino il soffitto, letteralmente ricoperti da migliaia di fiocchi rosa ed azzurri, che le mamme donano al Santo per ringraziarlo della loro maternità…
Quest’anno è toccato a Carife, che venera anche una bella statua del Santo, l’ambito onore di fornire al Santuario di San Gerardo l’olio che brucia nella lampada perenne che rischiara la tomba del Santo, amico degli umili, proprio come avviene per la tomba di San Francesco ad Assisi, nella cui Congregazione, come abbiamo già detto, voleva entrare da piccolo.
Carife produce un ottimo olio, noto ed apprezzato, e, nonostante l’annata non favorevole causata dalle gelate subite dagli uliveti, la popolazione ha risposto alla grande, con il consueto slancio e con l’abituale generosità: il fascino esercitato dalla figura di San Gerardo e la devozione e la venerazione di cui qui gode hanno facilitato il compito di chi ha curato, novello “questuante” come lui, la colletta.
San Gerardo vivrà in eterno nel cuore di Carife e dei Carifani e soprattutto nei miei ricordi.