CARIFE: UN TEMPO SI VIVEVA COSI’… Parte 1

A SCUOLA…UN OCCHIO AL PASSATO

 

carife_viveva_1 (1)

A scuola, oltre ad insegnare le materie solite, abbiamo spesso affrontato anche argomenti relativi agli usi, costumi e tradizioni del nostro paese: canti popolari, feste, giochi,magia e credenze, proverbi, la vita in casa e nei campi, l’artigianato, il modo di vestire, ecc. hanno rappresentato un vasto campo in cui spaziare nell’ambito di ciascuna disciplina d’insegnamento.
L’atteggiamento e la reazione dei ragazzi non ci hanno sempre incoraggiati: sorrisetti maliziosi, sbadigli, disinteresse ci hanno spinto a domandarci a chi e o a che cosa servisse tutto questo. Nonostante tutto però, forse anche per un nostro intimo e sottile piacere, abbiamo continuato a parlare di un mondo contadino che appartiene alla maggior parte di noi, e lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo con la struggente nostalgia e con gli occhi lucidi di chi in esso è cresciuto e della sua cultura si è nutrito, fino a portarne una traccia indelebile nel proprio DNA.
Oggi quel mondo è scomparso, forse per sempre. Molti lo hanno rimosso dalle proprie coscienze, lo hanno esorcizzato e tentano di dimenticarlo e di cancellarlo, associandolo a mancanza di comodità, di benessere, alla presenza di fatica, di sacrifici, di stenti, di sofferenze in un duro e quotidiano lavoro, per procurarsi quanto necessario per la vita, ad incominciare dal “pane quotidiano” per sfamare la famiglia, quasi sempre numerosa. Molti, presi dalla foga del nuovo, hanno addirittura distrutto o buttato stoviglie, mobili e oggetti del passato, quando furbi rigattieri non se ne sono appropriati per quattro soldi. Il resto lo ha fatto l’arrivo degli oggetti in plastica che, oltre a mandare in crisi irreversibile l’artigianato locale, ha consentito all’uomo, il “re” inquinatore dell’intero Universo, di attrezzarsi per farlo al meglio.
Anche i vari terremoti hanno giocato un ruolo importante per la progressiva scomparsa di oggetti e mobilio: già all’indomani del disastroso terremoto del 23.11.1980 tra le macerie si aggiravano degli autentici “sciacalli” che portavano via quanto potevano o compravano per quattro soldi mobili antichi o dando in cambio orrende e orribili casse a baule: I rigattieri, gli antiquari, gli intenditori senza scrupoli e quelli che non avevano avuto la casa distrutta fecero affari d’oro. Fortunatamente qualcuno conservò gelosamente qualche oggetto, quasi come una preziosa reliquia, ed è fiero ora di mostrarlo ed esibirlo. Mi è capitato di constatarlo con Duilio Tudisco, meglio conosciuto negli anni ottanta come “orto fresco”, perché andava di porta in porta a vendere i suoi prodotti agricoli. Mi ha mostrato e consentito di fotografare con enorme entusiasmo un gran numero di oggetti e di attrezzi custoditi con grande meticolosità, tra cui di sicuro pregio ruoti, bracieri e “callare” di rame, avuti in dote dalla moglie Maddalena Giannetti e destinati ai figli e alle nuore: il dono sarà sicuramente apprezzato. Un’altra bella serie di oggetti si trova nella casa di Raffaele Di Ianni, attuale sindaco di Carife, in quella di Giuseppe Colella, dipendente del Comune e in quella del sottoscritto, che colleziona, quasi a livello maniacale e morboso, simili oggetti. Ma suppellettili, mobili e “ruagne” si trovano quasi in tutte le case di Carife.

IL SIG.  DUILIO TUDISCO CIRCONDATO DAI SUOI AMATI OGGETTI

IL SIG. DUILIO TUDISCO CIRCONDATO DAI SUOI AMATI OGGETTI

La nostra, almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso, è stata sempre un’economia di pura e semplice sussistenza e sopravvivenza. Spesso si è andati altrove a cercare fortuna e l’emigrazione ha falcidiato la nostra popolazione. Comunque un gran numero di artigiani (mugnai, fabbri, calzolai, barbieri, falegnami, muratori, sarti, ramai, “stagnari”, fornaciai, tessitrici, ricamatrici, frantoiani, “scardalani” e…chi più ne ha più ne metta…) ha sempre consentito al nostro paese di essere invidiato dalle popolazioni limitrofe, che qui spesso inviavano giovani apprendisti e prestatori d’opera. Il nostro sistema economico, per così dire “chiuso”, ha sempre consentito a tutti una vita onesta, anche se non agiata e, soprattutto, ha sviluppato un grande spirito di sacrificio e di solidarietà, oggi purtroppo sempre meno presente. I ragazzi magari ci sono apparsi più curiosi di sapere che una volta le donne, quando si raccoglievano le olive, non indossavano…le mutande e non portavano ancora i pantaloni o quando, sedendosi all’ombra tutti per terra a mangiare, occupavano i posti più a valle, per evitare le occhiate furtive dei maschi…sempre pronti a spiare sotto le gonnelle. A volte hanno sorriso maliziosamente, guardando verso le ragazze, quando in classe si è detto che una donna indisposta non poteva preparare la salsa ed i salumi perché si sarebbero “guastati”. Sono rimasti perplessi quando abbiamo parlato delle credenze legate alle fasi lunari (“mancanza” e “crescenza”) per il lavoro dei campi (semina, raccolta della frutta e degli ortaggi, conservazione, ecc.) o dell’influsso esercitato dalle cicliche ricorrenze del martirio di San Sebastiano (“Sant Sav’stiano) in tutte le fasi delle operazioni agricole.
Hanno riso quando abbiamo citato alcuni proverbi e detti popolari, tipici della “sapienza” e della filosofia contadina. Quello sicuramente più simpatico, eloquente ed espressivo è legato alla conservazione delle filze o dei mazzi d’aglio: quando arriva la primavera e canta il cucùlo l’aglio germoglia e te lo puoi mettere nel…(cerca una parola che fa rima con cucùlo…). Analoga sorte toccava alle cipolle, alle patate e alla noce, che, una volta arrivata la Croce (3 maggio), andava buttata perché si irrancidiva. “ A la Croce, scetta la noce”.Che dire poi del famoso detto “vruocc’l e pr’r’catur, passat’ Pasqua, nun songh bbuon’ cchiù” (Broccoli di rape e predicatori, passata la Pasqua, non sono più buoni). Abbiamo continuato imperterriti a parlare di quel mondo mandato in pensione dall’arrivo di un maggiore benessere, di un più consono tenore di vita o della “modernità” come dice qualcuno. Lo abbiamo fatto nella convinzione che un popolo non può fare a meno del proprio passato e non può e non deve assolutamente dimenticare che la vita di oggi è figlia legittima di quella di ieri e tradizioni e passato non vanno trascurati o peggio rimossi, quasi fossero una vergogna: chi lo fa è come se rinnegasse i propri genitori e le proprie radici o spezzasse l’anello di una catena, alla quale tutti noi siamo appesi. Spesso siamo stati incoraggiati da qualche ragazzo che mentre si parlava ha detto: “ Professore, quello che dite è vero, me lo ha detto anche mio nonno…” Con questo spirito abbiamo voluto raccogliere e fotografare una serie di oggetti e suppellettili, che testimoniano la nostra vita passata. Non è stata un’impresa facile: molti oggetti non sono stati più trovati, come ad esempio la padella che serviva per abbrustolire l’orzo, la “c’culatera” per prepararlo, “lu scarfaliett” per riscaldare il letto e tanti altri. Prima che scompaiano del tutto queste preziose testimonianze sarebbe opportuno che l’Amministrazione comunale si adoperasse per costituire un museo della civiltà contadina, magari negli immensi spazi lasciati liberi dalle scuole, soprattutto a seguito del calo del numero degli alunni.

EVENTUALE SEDE DI UN MUSEO DELLA CIVILTA’ CONTADINA?

EVENTUALE SEDE DI UN MUSEO DELLA CIVILTA’ CONTADINA?

VIVERE IN CUCINA…

Come succede ancora oggi nelle nostre case, gran parte della giornata, soprattutto durante l’inverno, veniva trascorsa in cucina, che era contemporaneamente anche soggiorno e sala da pranzo. Il focolare era il centro intorno al quale tutto ruotava: davanti ad esso, magari in compagnia dei vicini, ci si sedeva in cerchio su scanni e sedie e si sgranocchiavano ceci abbrustoliti,  si mangiavano patate cotte sotto la cenere ardente, si ascoltavano racconti fantastici, esperienze di vita. Al tenue chiarore emanato dalla fiammella di una piccola lucerna ad olio le nostre fantasie di bambini, e spesso i nostri sogni, si popolavano di esseri misteriosi: “scianare”, “scazzamarieddi” e “pump’nar’” erano protagonisti nei racconti dei vecchi. Io ero particolarmente affascinato dallo “scazzamarieddo”, una specie di piccolo gnomo dal cappello rosso, che talora di notte veniva a sdraiarsi sul tuo corpo ed il suo peso aumentava sempre di più; bisognava ingaggiare una vera e propria lotta per scuoterselo di dosso, ma se fossi riuscito a prendergli il cappello avresti potuto chiedergli qualunque cosa: buona sorte, amore, denaro e quant’altro di buono avresti voluto dalla vita. E lui te l’avrebbe dato…

Il focolare è il centro della casa...

Il focolare è il centro della casa…

Nelle case esistevano vari tipi di focolari e di camini. Naturalmente in quelle dei benestanti i  camini erano di pietra,lavorata artisticamente dai numerosi scalpellini della zona.

Artistico camino in pietra in una casa di Carife

Artistico camino in pietra in una casa di Carife

In altre case, quelle più numerose, c’era la ben nota “cucina a vapore”, dotata di “callare” di rame di varie dimensioni. Spesso sull’ampio ripiano e tra le due caldaie era situato un pozzetto scaldavivande chiuso da cerchi di ferro concentrici, che permettevano l’appoggio sui carboni accesi di un “tiano di creta”, nel quale era tenuto al caldo il ragù, che, magari continuava a cuocere borbottando.
Spesso la cucina a vapore era dotata di una sola caldaia e sotto di essa c’erano due sportellini, uno per attizzare e l’altro per raccogliere la cenere, che vi scendeva attraverso una griglia.
Le caldaie venivano usate soprattutto quando si faceva la salsa di pomodoro. Al di sopra della bocca del camino c’era un perno di ferro al quale si appendeva un “callaro”, mediante una catena fornita di ganci e formata da grossi anelli. Era possibile regolare la sua altezza sul fuoco, quando si dovevano lessare le patate o quando si doveva cuocere la pasta fatta in casa o lessare le verdure.
Sul ripiano superiore del camino (“’ncimma a lu muridd’”) o su una valvola del tiraggio trovavano posto anche le scatoline contenenti i fiammiferi di legno (“Li micciariell”) che quando venivano sfregati e si accendevano emanavano un acre e pungente odore di zolfo che ti toglieva il respiro. Talora vi erano poggiati anche il ferro da stiro, il macinino per il caffè, o qualche altro oggetto di uso quotidiano.

La cucina a vapore

La cucina a vapore

In qualche casa, specialmente in campagna, il caminetto era davvero povero e semplice ed era costruito con mattoni. Per molto tempo il focolare continuò ad essere il vero centra della casa.

Povero caminetto in una "Pagliarola a Creta"

Povero caminetto in una “Pagliarola a Creta”

Nel camino era facile vedere anche un bel mattone che, riscaldato a dovere ed avvolto in uno straccio spesso bruciacchiato, veniva inserito nel letto e serviva per riscaldare i piedi.
Appeso ad una parete della cucina c’era quasi sempre un antico fucile, trasmesso in eredità da padre in figlio. I più antichi si caricavano “a bacchetta”, cioè ad avancarica.
Poi purtroppo arrivò la radio e si ascoltò più lei e…meno gli altri. La voce caratteristica di Niccolò Carosio ci faceva vivere le emozioni del calcio. Arrivarono nelle nostre case le canzoni del festival di San Remo e il giorno dopo tutti potevano canticchiarle per le vie e i vicoli del paese.

carife_viveva_1 (8)

ARRIVO’ LA RADIO…

 

Davanti al focolare si traevano auspici per il futuro udendo il verso inquietante di una civetta o guardando ed ascoltando il crepitìo delle scintille provenienti dai tizzoni (“Li c’ppun’) che ardevano e sfrigolavano nel camino (“La ciumm’nera”).
Gli anziani, vedendo la fiammella ondeggiante della luce ad olio fare il “fungo” o guardando il gatto, accovacciato davanti al fuoco, passarsi l’orecchio con la zampa inumidita con la lingua per “pulirsi la faccia”, facevano le previsioni del tempo per i giorni successivi…e spesso si avveravano.

SE IL GATTO SI PASSAVA L’ORECCHIO…IL TEMPO SAREBBE STATO  BRUTTO

SE IL GATTO SI PASSAVA L’ORECCHIO…IL TEMPO SAREBBE STATO BRUTTO

Il gatto, affamato, meditava intanto di divorare il saporito ” lucigno” imbevuto d’olio, una volta raffreddato dopo che tutti erano andati a letto…e dava uno sguardo distratto e sospiroso al pezzo di lardo o di “puttur’nedda” appesi alla pertica (Tanto va la gatta al lardo…che ci lascia solo l’uncino).
Spesso il gatto, troppo “cenerentolo”, aveva il pelo bruciacchiato qua e là da scintille o da contatti accidentali con qualche carbone incandescente. Sonnecchiava davanti al fuoco, se lo prendevi in braccio potevi sentire il suo ron…ron quando faceva le fusa. Era libero di entrare e uscire di casa a suo piacimento, specialmente di notte e nel periodo degli amori, attraverso un apposito foro circolare praticato nella parte bassa della porta o della “purtedda”, una sorta di seconda porta a metà altezza. Spesso il gatto faceva finta di non vedere qualche topolino, che si aggirava tranquillo ma guardingo tra i sacchi di grano trebbiato da poco: già sapeva come sarebbe andata a finire più tardi o forse avevano sottoscritto un patto di non aggressione. Ora i gatti vengono trattati a croccantini e golosi bocconcini e…non sanno più che i topi sono di gran lunga migliori. Anche per loro i tempi sono cambiati…

LA LUCE A OLIO (“LA LUCIA A UOGLIO”)

LA LUCE A OLIO (“LA LUCIA A UOGLIO”)

Quando poi arrivò la televisione diventammo un po’ tutti schiavi di questo nuovo mezzo di comunicazione, che conquistò grandi e piccini. Lassie, Rin Tin Tin, Furia, Mike Bongiorno con i suoi quiz, Mario Riva, il Mago Zurlì, Carosello, Tribuna politica, i Documentari, le previsioni del tempo del colonnello Edmondo Bernacca sconvolsero le nostre abitudini di vita: non andammo più a letto…con le galline o molto presto la sera, parlammo sempre meno in casa e fra di noi ma, in compenso, i nostri sogni si popolarono delle avventure appena viste e spesso ne diventammo protagonisti; ci tornavano in mente, turbando i nostri sogni giovanili, le belle e procaci vallette e le “Signorine buonasera”, come da subito furono chiamate le annunciatrici, delle quali eravamo tutti un po’ innamorati…
Per addormentarci sognavamo gli intervalli e contavamo le pecore che pascolavano tranquille al suono di un’arpa…
Allargammo le nostre conoscenze a tutto il mondo, conoscemmo storie e culture lontane, ma perdemmo tristemente di vista noi stessi e i nostri vicini… che ancora non abbiamo ritrovati e temo che non ritroveremo più, e non solo perché sono morti…
Davanti al fuoco, in una “pignata”, bollivano, gorgogliando e borbottando, profumatissimi ceci o fagioli: noi aspettavamo che cuocessero per avere la nostra parte di “cicc’ cuott’”. Talora sulla brace si arrostivano le castagne e si mangiavano ancora bollenti. La fiasca con il vino o una cecina smaltata veniva fatta girare e ognuno beveva tranquillamente, senza problemi, dalla stessa “cannedda”.

IL VINO SI BEVEVA DA “CECINA” E FIASCHE…

IL VINO SI BEVEVA DA “CECINA” E FIASCHE…

Poi arrivò il “Pibigas”: si accese sempre meno il fuoco e molti oggetti finirono tristemente in soffitto o in cantina. Molti altri cambiarono da subito le proprie mansioni, furono venduti agli antiquari ed emigrarono o diventarono portafiori e portaombrelli. Da essi si cancellò il fumo e le tracce di colatura dei cibi che vi si cuocevano: si cancellò in buona sostanza la loro patina di antichità e persero la loro storia ed il loro incredibile fascino…
Fu poi la volta del lume a petrolio, poi dell’acetilene (“la ciutulera”), funzionante a carburo, e infine della lampada a gas, che funzionava con la bombola di Gas e con un piatto sospeso al soffitto munito di una “calza” che, una volta accesa, diventava incandescente.

ARRIVO’ IL PIBIGAS…

ARRIVO’ IL PIBIGAS…

Ogni tanto qualcuno prendeva la “paletta” o l’immancabile “iataturo” e ravvivava e attizzava il fuoco: le scintille, scoppiettando e volando qua e là, mettevano tanta allegria in tutti noi e aleggiava nell’aria il classico odore della lana delle calze che bruciava…
Fuori intanto infuriava la “Voria” (Tramontana) o la “Luanta” (Vento di Levante) e un anziano sentenziava: “ La Luanta nun ven’ mai vacanta”. Una vecchietta aggiungeva “La Voria a la luata, la Luanta a la pusata”. Noi piccoli domandavano: “ E che vuol dire?” Lei, paziente, spiegava che proprio quando il vento cambia improvvisamente direzione e si dispone da Nord (Bora) si ha il tempo peggiore, mentre quando il vento proveniente da Est (Levante) si posa, ossia smette di soffiare, arrivano pioggia e neve e un’altra vecchietta, a conferma, saggiamente aggiungeva: “Quann’ mena la Luantina, prepar’te la farina”.
Talora fuori nevicava, “lu pruin” entrava da sotto la porta… e le folate di vento facevano venire i brividi a grandi e piccini.

DAVANTI AL FUOCO: PIGNATA, PALETTA E “IATATURO”

DAVANTI AL FUOCO: PIGNATA, PALETTA E “IATATURO”

Davanti al fuoco, “rint’ a lu ching”, spesso cuoceva la saporitissima e profumatissima pizza di granone. Se chiudo gli occhi rivedo la scena, risento l’odore, mi viene l’acquolina in bocca, avverto un groppo alla gola e mi assale… una malinconia esacerbata…forse perché sto diventando vecchio e i vecchi, si sa, si commuovono spesso ed hanno la lacrimuccia facile.
Erano altri tempi: i sapori erano più genuini, i ritmi di vita non erano frenetici come quelli di oggi e scorrevano più lenti, c’era maggiore solidarietà tra di noi: eravamo sì più poveri, ma molto più ricchi dentro…e soprattutto più uniti.
Nelle calde serate estive, seduti insieme davanti alle porte, si parlava del più e del meno e si faceva anche qualche pettegolezzo; gli argomenti preferiti erano le pensioni che incominciavano ad arrivare e quei pochi soldi bastavano anche per fare qualche regalo ai nipotini… dell’andamento dell’annata, dei lavori da fare. Le donne sferruzzavano fino a tarda sera, ma non si parlava di prezzi che aumentavano, di violenze sui bambini, di fatti di cronaca nera, di scandali nella politica, di “mani pulite”, di “toghe sporche”, di decreti salva questo o salva quello, di droga, di immigrati clandestini, di sicurezza, di furti e rapine, di vandalismi e di bullismo, di disoccupazione giovanile, di matrimoni fra omosessuali, di soldi che non bastano per arrivare a fine mese, di rifiuti che soffocano la Campania, di discariche da fare in Irpinia, di Veltroni e Berlusconi, di bambini che sono sempre di meno, di scuole che chiudono, di vecchi da far assistere dalle badanti, di mariti che si perdono dietro di esse, di Rom, e di tante altre questioni sempre più inquietanti.

“LU CHING”

“LU CHING”

NEL CAMINO “PIGNATE E PIGNATIEDD”.

NEL CAMINO “PIGNATE E PIGNATIEDD”.

Nella cucina erano anche presenti numerosi altri oggetti necessari ogni giorno. Solitamente, dietro la porta o accanto ad essa erano appesi i pesanti scialli indossati dalle donne quando dovevano uscire per sbrigare faccende o andare a messa, e il pastrano o la mantella di panno nero usati dagli uomini quando uscivano per andare dal barbiere o alla cantina a giocare a “padrone e sotto”. Questi indumenti spesso puzzavano di fumo, perché quando soffiavano “venti contrari” il “cacciafumo” non tirava e il fumo invadeva cucina e piano superiore e si attaccava agli indumenti.
L’odore del fumo si avvertiva soprattutto in chiesa, quando si ascoltava la messa o si assisteva alle altre funzioni religiose o si accompagnava al cimitero un altro che se n’era andato.
In uno dei due buchi situati ai lati della porta trovavano posto il pettine (“lu sp’cciatur”) e, più tardi, “la pett’nessa”. I pettini, necessari a volte anche per rimuovere dai capelli le uova dei pidocchi (“li linn’l’”) avevano i denti molto stretti, erano d’osso e venivano fabbricati dai “Cast’ddani” (abitanti di Castel Baronia), che erano soprannominati “secacorna”. Appeso dietro la porta c’era anche un piccolo specchio.
Nell’altro buco solitamente si conservavano, in batuffoli, i capelli che le donne perdevano mentre si pettinavano; essi venivano ritirati, in cambio di aghi, ditali, “ruzzielli”, spolette di filo, mollette e fermagli per i capelli, “spingole”(spille da balia) e altra merceria, piatti, ecc. da commercianti ambulanti che giravano tutta la Baronia, richiamando le massaie al grido di “Capill’,capillar’”.
Alcuni sicuramente ricorderanno ancora un certo “Pascariell”, che sposò una carifana, figlia di Rocco Bonavita (“Taboscio”) girare per le vie del paese con un panierone al braccio, pieno di ogni mercanzia.
Dietro la porta era possibile trovare anche un pezzo di legno, appuntito e affilato come una lama di coltello chiamato “annettaturo”, utile per ripulire le pesanti scarpe di suola dal fango rimastovi attaccato, quando si tornava dalla campagna o si percorrevano le strade del paese, ancora non lastricate. Le scarpe, confezionate dai calzolai di Carife, erano munite di bulle (“c’ntredde”) e venivano ammorbidite con sebo di pecora (“ ru siv’”) o ungendole con un pezzo di lardo irrancidito, cosa questa che le rendeva molto appetibili ai cani, che talvolta le rubavano e se le rosicchiavano, unitamente alle stringhe ( “re curr’sciol’” o “li lacc’”).
Dietro la porta era possibile anche trovare, per un anno intero, i ramoscelli di ulivo benedetti in occasione della Domenica delle Palme.
Sempre in prossimità della porta, che immetteva direttamente nella cucina, si trovava un trespolo di ferro battuto che reggeva un bacile bianco smaltato e una brocca. Era dotato di un piccolo ripiano portasapone e di un prolungamento oltre il bordo superiore, al quale veniva agganciato l’asciugamano. L’attrezzatura serviva per lavarsi mani e viso quando era necessario.
E’ noto infatti che solo pochi avevano in casa i bagni, che furono progettati, a Carife, solo dopo il terremoto dell’Agosto del 1962. Prima non c’erano e ognuno risolveva i propri bisogni corporali nei modi che vedremo più avanti; oltretutto mancava anche un’ efficiente rete fognaria…

IL BACILE E IL  PIEDE CON LA BROCCA

IL BACILE E IL PIEDE CON LA BROCCA

Dietro la porta era anche possibile trovare la scopa di miglio, necessaria per fare le pulizie in casa. Veniva fabbricata, come tante altre cose, a Carife.

LA SCOPA DI MIGLIO

LA SCOPA DI MIGLIO

Al soffitto, a volte costituito da “affumate” travi di legno e tavole (“ li suldarin’”), era attaccata una lunga pertica, dalla quale pendevano salsicce, sopressate, pezzi di lardo, prosciutti e spalle salati, vesciche piene di sugna (“’nzogna” o “saima”), “’nserte” di agli, cipolle e peperoni secchi, mazzetti di pomodorini della regina (“Li pienn’c’”). Il tutto, con il lento trascorrere dei giorni e dei mesi, assumeva un forte odore di fumo, che rendeva più appetitoso e saporito ciò che si portava in tavola.
A volte dalla pertica pendevano anche pezzi di baccalà, allora considerato cibo dei poveri e ora diventato costosissimo e quasi un lusso per tutti.
Alla pertica era anche attaccato un mazzetto di “piedi di porco” salati e raggiunti spesso dalle mosche, come del resto accadeva per tutto ciò che vi era appeso.
A primavera poi agli e cipolle “si innamoravano” e cacciavano i germogli e la pertica si tingeva di verde.

“’NSERT’ DI PEPERONI ESSICCATI AL SOLE

“’NSERT’ DI PEPERONI ESSICCATI AL SOLE

Ovviamente in casa erano presenti anche tutti i contenitori necessari per “stipare” la roba: cesti e panieri (“ cosc’n’” e “panar”) intrecciati con vimini (“vitt’l”) e canne, vasi e vasetti di diverse dimensioni occorrenti per conservare la saporita e profumata salsa di pomodoro essiccata al sole, salsicce e sopressate  (“zazicch’ e suprussuat’”) sottolio, sugna, ecc.

CESTI DI VIMINI (“ LI VITT’L’”) E CANNE

CESTI DI VIMINI (“ LI VITT’L’”) E CANNE

VASETTI DI VARIO TIPO

VASETTI DI VARIO TIPO

La non molta acqua necessaria per gli usi domestici bisognava andarla a prendere ai “fontanini”, installati nel paese dopo gli anni venti del secolo scorso, quando arrivò l’acqua dalle Bocche. Prima essa veniva attinta alla fontana del Giuliano, alle Fontanelle o a quella che si trova tuttora in Via Fontana Nuova. Alle fontane si andava anche per lavare le verdure e per sciacquare i panni. Si usavano “quartare”, quartaredde” e conche di rame, presenti in casa anche come oggetti del corredo delle donne. L’acqua da bere veniva conservata in recipienti di terracotta, che erano in grado di mantenerla fresca e facili da portare anche in campagna (“Ciotole e ci’cen”) Tutti questi oggetti (“ruagne”) erano fabbricati a Carife da espertissimi fornaciai e “ramari” e venivano venduti anche nei paesi vicini.
Poi arrivarono grosse conche e catini di zinco e le quartare andarono…in pensione. L’arrivo dei contenitori di plastica mandò in soffitto o all’immondezzaio i contenitori di terracotta e i tanti fornaciai di Carife ebbero sempre meno lavoro e spesso furono costretti a cambiare mestiere. Il resto lo fece il disastroso terremoto del 23 novembre 1980. Sparirono anche le ultime fornaci presenti nel centro urbano.
Solo ultimamente un giovane ha ripreso, con molto coraggio ed entusiasmo, l’attività di fornaciaio e fabbrica oggetti e “ruagne” di buona qualità, molto richiesti da nostalgici ed inguaribili amatori a caccia di ricordi e di emozioni, che spesso solo il passato può procurarci.
Purtroppo però per le vie di Carife si aggirano ancora rigattieri senza scrupoli, pronti a scovare e a portar via gli ultimi “pezzi” ancora rimasti.

LA CONCA DI RAME PER L’ACQUA

LA CONCA DI RAME PER L’ACQUA

“QUARTARE E QUARTAREDDA”

“QUARTARE E QUARTAREDDA”

CIUTULECCHIA e  CECINE

L’ACQUA DA BERE ERA CONSERVATA NELLA CIOTOLA, NELLA “CIUTULECCHIA” E NEL “CECINE”

La fontana finiva per diventare un luogo di incontro e si poteva spettegolare di questo e di quello. Lungo la via che conduceva alle fontane e, in seguito, ai fontanili, i ragazzi si aggiravano guardinghi per incontrare le ragazze che andavano ad attingere l’acqua e magari scambiare quattro chiacchiere con loro, dichiararsi o portare ambasciate (“ammasciate”) per conto di quelli più grandi.
Ovviamente gli oggetti di terracotta, in questo andirivieni, spesso si rompevano e occorreva comprarne di nuovi, che a Carife certo non mancavano. “Tant’ vaie la quartara a l’acqua…”
Comunque penso che qualcuno ancora ricordi il gorgogliare dell’acqua fresca che, singhiozzando, usciva dal collo della ciotola, che magari aveva perduto, durante il lungo uso, un pezzo del “musso” quadrilobato o un manico: si rimuoveva la foglia di vite o di un altro albero dalla bocca della ciotola o, se si trattava di un cecine, il tappo di legno legato con lo spago ad uno dei due manici, si avvicinava alle labbra e l’acqua ti entrava gorgogliando e garganellando nella bocca e, traboccando dai lati nel collo, ti bagnava il petto, dandoti una sensazione di fresco benessere, facendoti emettere il tipico sospiro che viene quando ti buttano addosso l’acqua fredda e… togliendoti la sete.
Poi il recipiente, “sudato” per la condensa o avvolto in uno straccio umido, passava ad un altro o ad un’altra e nessuno, mai nessuno, faceva lo “schifiltoso”, rifiutandosi di bere dallo stesso “cecine” o dalla stessa ciotola: ma quelli erano altri tempi…ed ora lo fanno solo, per ben altri motivi, quelli che giocano a “padrone e sotto” e ti tolgono il bicchiere dalle labbra, perché devono vendicare o ricambiare “un urmo” subito.
Quando la nostra famiglia era impegnata nel duro lavoro dei campi, che iniziava di buon mattino al canto del gallo e terminava al calare delle prime ombre della sera, toccava a noi piccoli andare a riempire ciotole e ci’cen’ alla pila o “a lu ‘ntresc’l’”, che si trovava nei dintorni. Vi andavamo pigramente e di malavoglia, e ci attardavamo alla ricerca di alberi carichi di rosseggianti e dolci ciliegie da…saccheggiare o di profumate albicocche, pere, susine e frutta varia da portare, unitamente all’acqua fresca, alla paranza di mietitori assetata sotto il sole cocente o a chi rincalzava (“accauzava”) il granone, scavava le patate, raccoglieva il tabacco, ecc.. Spesso ne facevamo delle vere e proprie scorpacciate da far venire il mal di pancia, ci riempivamo “il petto” e lo sguardo burbero, ma nello stesso tempo ridente di genitori, nonni e fratelli più grandi costituiva per noi un’enorme gratificazione e ci ripagava per tutta la fatica fatta. Nessuno temeva pesticidi e veleni e non ricordo che le ciliegie avessero i vermi. A dire il vero talora la fame era tanta che non scartavamo neppure i …nocciolini (“ r’ nuzz’l’”).
A volte lungo la via che dovevamo percorrere ci attardavamo ad osservare le lucertole che facevano capolino dalle siepi o prendevano il sole e cercavamo di catturarle, facendo un nodo scorsoio ad un lungo stelo di avena selvatica (“Li gradd’l”) e avvicinandolo alla loro testa: bastava tirare ed il gioco era fatto. Spesso ci spaventavamo udendo il fruscìo improvviso di un verde ramarro (“l’aciertl”) spaventato o vedendo un grosso serpente nero strisciare verso una siepe. Altre volte scoprivamo il nido di un merlo o di una pica e ascoltavamo, in silenzio, il canto melodioso dell’usignolo (“lu riscignuol’”), cercando di individuarne la provenienza, o il frinire della cicala, che cercavamo di catturare, quando era ferma sul tronco di un olmo, a portata di mano. “Tu chiamale, se vuoi, emozioni…”

UN BEL RAMO CARICO DI “C’RAS’ M’LOGN’”

UN BEL RAMO CARICO DI “C’RAS’ M’LOGN’”

Nelle case, sia in paese che in campagna, potevi trovare tutto ciò che serviva per fare il pane e per fare la pasta in casa. Tutti avevano la madia (la “fazzatora”), in cui si conservava la farina e, affondato in essa, il lievito necessario per la “panata” successiva o da restituire alla vicina che ce lo aveva prestato.
A volte la madia si trasformava in stipo e vi venivano riposte pentole e recipienti contenenti cibi avanzati, da consumare in un secondo momento. Era questo un ottimo sistema per tenere lontano il piatto da visite di gatti e affini e soprattutto da occhi indiscreti.
C’era poi l’immancabile tavola (“lu tumpuagn’”) necessaria per preparare e spianare la sfoglia (“lu puann’”), il matterello (“lu lahenatur’”), uno scopino di miglio per spazzare o raccogliere la farina (“Lu scupidd’”), la seta e la rasola, un raschiatoio metallico, chiamato, in dialetto, la “rar’tora”. L’attrezzatura per fare la pasta era solitamente appesa ad una parete della cucina mediante una cordicella.

UNA MADIA (“FAZZATORA” O “NATRELLA”) APERTA

UNA MADIA (“FAZZATORA” O “NATRELLA”) APERTA

ATTREZZATURA PER LA PASTA FATTA IN CASA

ATTREZZATURA PER LA PASTA FATTA IN CASA

LA SIG.RA MADDALENA GIANNETTI TUDISCO ALLE PRESE CON I CICATIELLI (“ LI TRIIDD’”)

LA SIG.RA MADDALENA GIANNETTI TUDISCO ALLE PRESE CON I CICATIELLI (“ LI TRIIDD’”)

In casa non poteva assolutamente mancare un alimento di base: il sale. Allora si vendeva sfuso ed era “grosso”. Tutti possedevano almeno un mortaio ove pestarlo e sminuzzarlo con un pestello quasi sempre di legno (“Lu murtual’ e lu p’satur’). Il mortaio solitamente era di pietra, ma poteva essere anche di legno e talvolta di bronzo lavorato artisticamente.

Mortaio e pestello in pietra

Mortaio e pestello in pietra

DOPO L’ARRIVO DEL SALE “FINO” UN MORTAIO…MANTIENE LE CANDELE (RISTORANTE “AL PALAZZO”)

DOPO L’ARRIVO DEL SALE “FINO” UN MORTAIO…MANTIENE LE CANDELE (RISTORANTE “AL PALAZZO”)

Accanto al fuoco era solitamente piazzata una cassapanca (”Lu casciabanch’”), che aveva le funzioni dell’odierno divano, assente dalle case dei poveri. In esso, alzando il coperchio della “seduta”, era possibile riporre oggetti, legna da ardere, indumenti, ecc.. Anche questo era costruito, a volte con grande maestria, dai nostri falegnami, che utlizzavano diversi tipi di legno.

PANCA SENZA CASSA

PANCA SENZA CASSA

Ovviamente in casa non potevano mancare tavoli e tavolini necessari per le più svariate occasioni, prima di tutto per mangiare. In tutte le case c’era una tavola, più o meno grande, chiamata dialettalmente “buffetta” (chiaramente un “francesismo”, come turnachè e sciaraballo) e un tavolino più alto ( “Lu buff’ttin’”). Erano entrambi muniti di uno o due tiretti (“li t’ratur’”), nei quali oltre alla tovaglia (“lu stiaucch’”), venivano riposte le poche posate a disposizione (“furcin’ e cucchiar’”). I tovaglioli erano poco usati: ci si puliva alla tovaglia grande.
Chiaramente non mancavano le sedie di legno, impagliate con grande perizia dall’indimenticato Samuele Festina, un uomo semplice ma molto intelligente e dotato di una sua simpatica filosofia, che lo rendeva gradito a tutti. Con lui collaborava la moglie, che gli aveva insegnato il mestiere.

UNA SIMPATICA CASSAPANCA BIPOSTO

UNA SIMPATICA CASSAPANCA BIPOSTO

SEDIA DI PAGLIA

SEDIA DI PAGLIA

LE SEDIOLINE “BOMBONIERA” DI VITTORIO LUNGARELLA

LE SEDIOLINE “BOMBONIERA” DI VITTORIO LUNGARELLA

 

LE STOVIGLIE DI RAME NELLA DOTE DELLA DONNA

In tutte le case di Carife erano presenti, più o meno numeros,i gli oggetti e le stoviglie di rame, che la donna portava in dote come componente fondamentale del proprio corredo.
“La rama”, lavorata dai “ramari” di Carife, comprendeva pentole e pentoloni di varie dimensioni, la conca per l’acqua, ruoti dotati di manici e ruoti da forno forniti di un anello utili per appenderli in bell’ordine ad un “appendirame” inchiodato ad un muro della cucina.
L’oggetto di rame sicuramente più bello presente nelle case era il “braciere”, necessario per trasportare i carboni ardenti dal camino agli altri ambienti da riscaldare, in quanto nel passato nemmeno troppo remoto le case erano sprovviste di impianto di riscaldamento centralizzato.
Di rame era anche l’immancabile pompa irroratrice necessaria per dare il verderame alle viti, onde prevenire la peronospora o, talvolta, per imbiancare le pareti con la calce.
Gli oggetti di rame venivano periodicamente stagnati da artigiani di Carife. Tutti ricorderanno ancora lo stagnino Antonino Sauro, soprannominato “stagnariedd’”, per la sua piccola statura, e Antonio Pali, originario di Vallata, chiamato da tutti “z’ Ntonio lu ramar’”.

L’APPENDIRAME

L’APPENDIRAME

Ovviamente anche le pentole di alluminio, quando arrivarono, ebbero il loro posto accanto ai ben più prestigiosi oggetti di rame.
Essi si pulivano con maggiore facilità e non avevano bisogno di essere periodicamente lucidati, come occorreva fare con il rame.
In molte case era anche presente la graticola necessaria per arrostire la carne sulla brace, specialmente quando si ammazzava il maiale, un’occasione di festa per la famiglia e per parenti e vicinato.

VECCHIO E NUOVO AFFIANCATI

VECCHIO E NUOVO AFFIANCATI

UNA BELLA COPPIA DI BRACIERI COSTRUITI A CARIFE

UNA BELLA COPPIA DI BRACIERI COSTRUITI A CARIFE

“ LI CALLAR’ ‘NCIMMA A LU TREP’N’”

“ LI CALLAR’ ‘NCIMMA A LU TREP’N’”

CUCINA A VAPORE

CUCINA A VAPORE

CUCINA A VAPORE DOTATA DI UNA SOLA CALDAIA

CUCINA A VAPORE DOTATA DI UNA SOLA CALDAIA

In casa  ovviamente non poteva mancare quanto occorreva per cucire, per stirare e per  rammendare gli indumenti necessari. Quasi tutte le donne lo sapevano fare ed insegnavano  l’arte del cucito, del ricamo, dell’uncinetto, del lavorare la lana con i ferri alle figlie femmine o  alle nipoti.

MACCHINA DA CUCIRE CON ROCCHETTI DI FILO

MACCHINA DA CUCIRE CON ROCCHETTI DI FILO

UNA VECCHIA SINGER

UNA VECCHIA SINGER

FERRI DA STIRO

FERRI DA STIRO

LUIGINA MELINA “RAMMENDA” DAVANTI CASA

LUIGINA MELINA “RAMMENDA” DAVANTI CASA

Play/Pause

CONTINUA>>>