Il vecchio Palazzo Marchesale di Carife, che si trovava nel Rione antico dei Fossi, fu distrutto dal terremoto del 1732 e, come si è detto in precedenza, sotto le macerie morirono anche diversi membri della famiglia. Proprio per ricordare quella tragedia fu ripristinato nel 1755 il Monumento alla Croce, anch’esso distrutto dal terremoto. Scrive il Dott. Paolo Salvatore alle pagine 38 e 39 dei suoi “Appunti di Storia di Carife”, datati luglio 1952: “Il Marchese Capobianco da Benevento si trasferì a Carife dopo averla acquistata come feudo nel 1646. In origine abitava qui una casa che per i suoi tempi poteva passare per palazzotto addossato alla Sacrestia della nostra Chiesa madre, ed esistente ancora. Avvenuto il terremoto e migliorate le sue condizioni finanziarie costruì nel 1732 in luogo più sicuro alle falde del monte il palazzo Marchesale, ma come si vede senza torri e senza merli: lo che indica la natura non arcigna e medievale del nobile intelligente padrone, e ad un sol piano, com’erano fatte fin d’allora le costruzioni nelle zone sismiche come la nostra, che il Dottor Padre Gemelli Rettore dell’Università Cattolica di Milano venuto qui dopo il terremoto del 23 luglio 1930 classificò come zona sismica di prima classe. La famiglia Capobianco erede del titolo, non essendovi alcun maschio si è estinta con la morte del marchese Dionigi (9 aprile 1916) (per altri con la morte del fratello Raffaele) il quale Dionigi a cortissimo di beni materiali ed anche d’istruzione serbava però nel sangue il retaggio del suo veramente nobile casato. Innanzi al palazzo nello spiazzale si erge un monumento alla memoria dei caduti del 1915 per interessamento del Presidente della Sezione Combattenti Avv. Gaetano De Biasi – Ufficiale reduce di guerra – Podestà il fratello dottor Pasquale – Direttore dei lavori ingegnere Salvatore (1928-30)”. La tecnica costruttiva che fu utilizzata per erigere il palazzo fu quella cosiddetta “Alsaziana”, usata anche per ricostruire altre case di Carife dopo il terremoto del 1732. In questo particolare tipo di costruzione una serie di travi orizzontali e verticali sono integrate da quelle oblique, essenziali dal punto di vista statico dato che servono da puntoni di sostegno per conferire maggiore rigidità all’insieme. Il legno utilizzato era in genere quello di quercia, assai più resistente di altri, tanto che le case in cui era stato utilizzato non erano crollate ed avevano retto abbastanza in occasione del terremoto del 23 novembre 1980. Un esempio/campione di questa tecnica costruttiva è stato lasciato, in bella vista, in uno degli appartamenti del palazzo ristrutturato dopo il terremoto del 1980. Dopo il terremoto del 1980, prima ancora che se ne iniziasse la ristrutturazione, il restauro ed il consolidamento i proprietari privati degli appartamenti del Palazzo Marchesale sollecitarono la Soprintendenza per i Beni Architettonici ed Artistici (B.A.A.A.S.) a dichiarare di interesse particolare, sottoposto a tutte le disposizioni di tutela previste dalla legge 1089 del 1° giugno 1939.I proprietari temevano che se ne ordinasse la demolizione a tutela della pubblica incolumità.
Anche il periodico VICUM, nel n. 1 del marzo 1984, secondo anno di vita, aveva pubblicato a pag. 14 un articolo a firma dell’Ing. Carmine Famiglietti, che indicava il Palazzo Marchesale di Carife come monumento da salvare.
I proprietari degli appartamenti del Palazzo riuscirono nel loro intento: prima che finisse il 1984 fu notificato allo scrivente, allora sindaco di Carife, il decreto di vincolo del Palazzo, indicato come monumento di interesse storico, artistico ed architettonico ai sensi della legge 1089 del 1° giugno 1939.
Poiché ero un docente pensai bene di estrarre copia della relazione tecnica e storica sul Palazzo prodotta dalla Soprintendenza, per utilizzarla per fini didattici quando sarei tornato a scuola alla fine dell’aspettativa (1990).
Trascrivo integralmente la relazione che accompagnava il Decreto di vincolo del 1984:
“Il palazzo sito in Carife alle pendici della collina “Serra Croce”, fu commissionato dai Capobianco, una delle più antiche e nobili famiglie della città di Benevento, nel 1733, come si evince dall’epigrafe in capitale elegante (secondo il canone dell’epigrafia romana, n. d. r.) apposta su uno dei blocchi costituenti a mò di contrafforte sul lato Est del palazzo, recante:
C.M.C.D.S.IV.JUL.A.D.MDCCXXXIII che potrebbe così essere sciolta C(apusalvus) M(archio) C(arifii) C(onstruxit) D.(?) S.(?) Quattuor Julii A(nno) D(omini) M(illesimo) S(eptingentesimo) T(riginta) T(ertio).
A mio modesto parere D.S. potrebbe essere sciolto in D(omum) S(uam), vale a dire “la sua casa”.
Il feudo di Carife fu ceduto nel 1646 per 17.400 ducati da Carlo Vecchione, che ne era proprietario in qualità di Barone, a Laura de Ciaccio di Cosenza, vedova di Giovanni Francesco Capobianco, la quale a distanza di tre anni donò il feudo al figlio primogenito Antonio Capobianco, avvocato fiscale della Gran Corte della Vicaria.
Donna Laura de Ciaccio o Contestabile, chiamata a volte “Magnifica”, come del resto anche altre nobildonne appartenenti al suo stesso ceppo, era discendente di una famiglia, che nel 1409, a causa dell’inimicizia con i della Marra, da Barletta si trasferì a Cosenza.
In questa città, grazie anche ad una forte amicizia con il re Angioino Ladislao I° di Napoli i Ciaccio conquistarono un posto di assoluto rilievo, tanto che Pietro Ciaccio fu Contestabile e Sindaco del Sedile dei Nobili di Cosenza.
Ladislao I° di Napoli, detto il Magnanimo, noto anche come Ladislao D’Angiò Durazzo o Ladislao di Durazzo (Napoli 11 Luglio 1376- Napoli 6 agosto 1414, fu re di Napoli e detentore del titolo di re di Gerusalemme, re di Sicilia, Conte di Provenza e Folcalquier (2386-1414), dei titoli di re d’Ungheria (1390-1414) e principe di Acaia (1386 -1396). Dal 1406 fu anche principe di Taranto. Fu l’ultimo discendente maschio del ramo principale della dinastia degli Angioini.
I Ciaccio abitarono in un bel palazzo rinascimentale nel centro storico di Cosenza e furono annoverati tra i nobili della città. Il palazzo del Contestabile Ciaccio fu poi Sedile dei Nobili e in seguito Palazzo di Giustizia, sino alla metà del XVI secolo
Pietro Ciaccio fu Contestabile, una carica attribuita a chi, nel periodo svevo e in quello angioino in Sicilia e a Napoli, dalla monarchia dell’Italia meridionale e insulare veniva inviato nelle varie provincie del regno, o si affidava il comando di parti dell’esercito, o erano preposti al governo, specialmente militare, di singole città o castelli.
I Sedili popolari e nobili, detti anche Seggi o Piazze, furono dei parlamenti rappresentativi, nei quali si riunivano i delegati dei vari rioni, gestendo dalla seconda metà del ‘200 per più di cinque secoli ampie attribuzioni amministrative, giuridiche e giudiziarie nel Regno di Napoli.
Donna Laura de Ciaccio compare in alcuni atti, o “desideri”, nel corso del 1540. Sposò il celeberrimo giurista ed avvocato dei patrizi beneventani Giovanni Francesco Capobianco, esperto di cose feudali ed autore del “Tractatus de iure et officio baronum erga vasallos, burgenses…” edito, per la prima volta, nel 1603. Il “Trattato sul diritto e dovere dei baroni verso i vassalli, burgensi… fu ripubblicato varie volte: a Napoli nel 1614, nel 1622 e nel 1631. Fu ristampato nel 1707, nel 1710 e infine nel 1738, a più di cento anni dalla sua morte.
Nell’edizione del 1614, a pag. 13, si legge che “il feudo è un ufficio di tre specie: imperandi, regendi et iustitiam ministrandi”. Più avanti, a pag 41, si legge: “la giurisdizione criminale del barone deriva potius ex officio quam feudo”.
Gli studiosi di araldica, ovvero dei blasoni o stemmi di famiglie, persone o istituzioni, sostengono che la famiglia dei Capobianco (in latino Capiblancus) “risale al tempo delle crociate ed è originaria di Castelpoto”, in provincia di Benevento; nel corso del XVI Lorenzo Capobianco trasferì a Benevento la residenza della famiglia.
Il trattato suddetto suscitò non poche discussioni e polemiche. Negli Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Genova, a firma di Autori Vari, a proposito della netta contrapposizione che si era venuta a creare tra Regno di Napoli e Santa Inquisizione, leggiamo:
“Il clima che si era venuto a creare portò anche a rivedere opere stampate in un recente passato, e a farne le spese fu un funzionario, Giovanni Francesco Capobianco, che negli anni aveva più volte ripubblicato un fortunato trattato di questioni feudali, in cui vi erano delle pagine dedicate a questioni giurisdizionali. Nel febbraio del 1628, in una riunione del Collaterale (il Consiglio collaterale, o semplicemente Collaterale era il supremo consiglio del regno di Napoli, creato nel 1516 da Ferdinando il Cattolico: era composto prima di due, poi di tre, infine di cinque dottori, che deliberavano sugli affari di stato insieme al viceré. N. d. r.), l’avvocato fiscale Giulio Mastrillo richiamò l’attenzione dei reggenti sul fatto che nell’opera si affermava che nel Regno si sarebbe osservata la bolla di Gregorio XIV, il che a suo parere non era vero, e quindi per essere Capobianco Ministro de sua maestà se doveva castigare molto bene et prohibirsele il libro et essendo stato visto il libro, fu concluso che se raccogliessero tutti i libri et non se vendono”. Fu deciso di convocare il giurista e di fargli una “gagliarda reprensione”.
La questione è relativamente curiosa perché il trattato di Capobianco era da tempo in circolazione e aveva suscitato attenzioni molto diverse. Nel 1608, ad esempio, la prima edizione era capitata tra le mani del vicario arcivescovile di Cosenza, che vi aveva trovato affermazioni favorevoli a forme diverse di intervento della giurisdizione regia nei confronti dei chierici, e ne aveva deciso la proibizione (che per altro non fu recepita da Roma), il che indusse il giurista a mitigare e a modificare quanto asserito nelle edizioni successive: Il Capobianco aveva insistito sinteticamente sul diritto e la possibilità di ricorrere alle hortatoriae (richiami/esortazioni) nei confronti di ecclesiastici disubbidienti, ricorrendo anche al sequestro dei beni temporali da essi posseduti.
Giovanni Francesco Capobianco, nacque con ogni probabilità nel 1560 e morì nel 1633.
Laura Ciaccio, in data 18 agosto 1646, quando il marito era già morto da diversi anni, comprò il feudo di Carife dal barone Carlo Vecchione.
Successivamente, in data 29.12.1649, il feudo fu donato dalla madre al figlio Antonio; il relativo atto fu stipulato in Carife dal Notaio Giovanni Battista de Ippolito.
Nel numero del periodico VICUM, pubblicato alla fine del 1994, Padre Riccardo Fabiano pubblicò il testamento che la nobildonna Laura Ciaccio o Cecci dettò e depositò nelle mani di Frate Alessio Del Vasto del Convento di Carife e Custode del Principato Ultra.
Lo trascrivo integralmente, perché, come sostiene Padre Riccardo, “di questa (Laura Ciaccio, n. d. r.) manifesta la nobiltà, il tenero sentimento, la religiosità cristiana e francescana, la fedeltà e la giustizia”. (VICUM, op. cit. pag. 38).
Ecco il testamento:
“Jesus Maria Joseph et Franciscus
Testamento et ultima volontà di me Laura Cecci Capobianco, vedova del quondam Giovanni Francesco Capobianco, scritta per mano del mio Padre spirituale da me specialmente chiamato hoggi 20 Abrile 1659, quale testamento voglio sia valido in ogni tempo, come vi fossero poste tutte le Clausole e sollennità necessarie, così per via di testamento in scritto col sigillo et testamento nuncupativo et questo voglio che li figli miei sotto la mia benedizione habbiano da osservare.
(nuncupativo agg. [dal lat. tardo nuncupativus, der. di nuncupare; v. nuncupazione]. – Nel diritto romano, testamento n., il testamento orale, fatto di fronte a testimoni con una dichiarazione solenne (nuncupativo) – dal Vocabolario Treccani).
Primieramente raccomando l’anima a N. S. Gesù Cristo che per li meriti della sua santissima passione habbia d’havere remissione delli miei peccati, et ricevermi in Santa Gloria, col l’intercessione della Beatissima Vergine mia advocata et il mio Angelo Custode et San Michele Arcangelo mio advocato che debbia defendere e giutare nell’ultimo passo della mia morte, così tutta la corte celestiale; voglio che dopo la mia morte sia vestita dell’abito del glorioso S. Francesco et quello solutamente et una pietra a capo senza nulla pompa farmi sepelire nella Chiesa di Sant Francesco di questa Terra di Carifi.
In primis lascio erede Paulo mio figlio, per essere l’ultimo e povero, della mia dote di docati due mila e cinquecento assignati sopra Alabella et dopo trasportati alla Guardia Lombarda et anche detto Paulo habia da dare la legitima di quella a Stefano et Antonio (Futuro I° Marchese di Carife, n. d. r. ) miei figli, et perché Giovanni Battista mio figlio fece la renuncia Paterna e Materna col tutto ciò voglio che detto Paulo l’habia da dare la legitima, et col darli tutti li mobili quatri a detto Paulo, et ornamenti di casa, et quanto staranno d’entro li miei baugli di biancheria, oro, et argento, et detti miei figli non si habiano lamentare conforme li prego se non l’ho lasciato cosa di più, havendomi così ordinato et raccomandato Giovanni Francesco mio Marito, che avesse lasciato erede detto Paulo perché lui fu aggravato et altri figli l’ha lasciati bene accomodati col fiscali et altri contanti, essendosi fatta opera grande quando si sono accasati e dottorati et detto Paulo assolutamente have avuto due mila docati di fiscali sopra à Castello Grande, lasciati da detto B. A. di Giovanni Francesco mio Marito, et prego Antonio mio figlio, che l’debia donare la porzione della sua legitima, che così più volte mi ha promesso di farlo, si anco perché io li donai, quando lui si accasò una catena d’oro di docati cento ottanta, che era la mia, et voglio che la prima terza delle mie entrate di fiscale le debia dare per messe, come anco li docati quaranta, che stanno d’entro il mio bauglio si debiano dare per messe per l’anima mia, e così raccomando a tutti li miei figli, che s’abiano da raccordare (ricordare?) della mia anima e particolarmente a Paulo mio figlio et havendolo cresciuto io col darli quattro anni la menna mia et per ultima torno a benedire tutti detti miei figli, quali prego che si vogliano contentare di questa mia disposizione, quale voglio che sia valida in ogni modo migliore ancorché vi mancasse sollennità alcuna attese questa voglio che s’esegua e sia mia ultima volontà.
Quale disposizione io Fra Alessio del Vasto custode et Padre spirituale ut supra ho scritto la suddetta ultima volontà e testamento, e quello l’ho letto in presenza delli sotto scritti testimoni, cioè il D. (Dottore) fisico Scipione de Martinis, Sig.re Francesco Antonio Ciampone, Bernardino Russo, Giuseppe Cipriano, il G.l (Generale?) Cesare Ciampone, Antoniello Dellia, et altri. Carifi li 20 di abrile 1659
Antonio Capobianco ed i suoi eredi furono insigniti del titolo di marchese di Carife da Carlo II di Spagna, con un diploma spedito da Madrid il 18 giugno 1667, reso esecutorio dal Vicerè del Regno D. Pietrantonio d’Aragona e dal suo “regio collaterale consiglio a’ 5 di marzo del seguente 1668”. Il re tesse un elogio sperticato ed enumera le virtù le virtù di Antonio Capobianco e, volentes aliquo quodam praeclaro ornamento, quod in egregiam et satis antiquam nobilem familiam suam, suosque posteros in perpetuum emaneat, lo insignisce , marchiones terrae Carifii (Cfr. più avanti, Erasmo Ricca, Istoria de’ feudi del Regno delle Due Sicilie, Vol. 1, pagg. 173-175,Napoli, 1859).
Antonio Capobianco fu “patronus causarum” (avvocato) e fu membro della Gran Corte della Vicaria. Scrive il Ricca a pag. 175 della sua preziosa opera:
“Il primo Marchese di Carife Antonio Capobianco, che pervenne all’eminente posto di Reggente del Supremo Consiglio d’Italia, venne a morte il 25 luglio del 1672 senza aver prole alcuna da sua moglie Teresa Vulcano del sedile del Nilo. Laonde con decreto di preambolo della Gran Corte della Vicaria del dì 11 agosto del 1672 spettarono tutti i suoi beni feudali e burgensatici a Domenico Capobianco, nipote di lui e Marchese di Roccasanfelice, il quale pagò alla regia corte il relevio sul feudo di Carife”.
Nel corso del 1666 Antonio Capobianco aveva curato una riedizione integrata del famoso Trattato, scritto ad inizio secolo dal padre Giovanni Francesco, celeberrimum causarum patronus, Baronem Roccae Sancti Felici, et Carifi.
Il complesso del Palazzo Marchesale di Carife si sviluppa su di un muro di contenimento costituente un sol corpo con il piano nobile, dando all’edificio un aspetto imponente. Un elemento decorativo dato da un cordolo in pietra bombata crea la differenziazione tra il piano nobile e il muro di contenimento stesso.
Il portale in bugnato squadrato con arco a tutto sesto dà accesso alla corte e al piano nobile, tramite un androne scoperto che termina con altro arco delimitante la corte interna.
Sul portale è collocato lo stemma coronato di famiglia, realizzato in pietra a quattro riquadri, che testimoniano degli imparentamenti della famiglia con i Pacca i Vulcano ed altri. (Lo stemma di famiglia fu poi ricollocato al suo posto negli anni Ottanta del secolo scorso, all’atto dell’esecuzione dei lavori di restauro e consolidamento del Palazzo Marchesale. Il blasone dei Capobianco è quello scolpito nel riquadro in alto a sinistra, recante tre stelle).
L’ala Nord, parte dell’ala Ovest e la parte a destra del portale d’ingresso sono state abbattute dopo il terremoto del 1962 e ricostruite con criteri antisismici rispettando la volumetria originale ma senza alcun rispetto del precedente carattere architettonico strutturale.
Sul lato sinistro della facciata sud del Palazzo c’era anticamente la “Cappella Palatina”, nella quale si celebrava la Messa per i Marchesi e si celebravano, in forma privata, i momenti salienti della loro vita religiosa (battesimi, matrimoni, ecc.). Alla cappella si accedeva direttamente dalle stanze del palazzo. In essa, stando al ricordo ed alla testimonianza attendibili di chi ha abitato a lungo proprio nell’appartamento ad essa adiacente, erano presenti almeno tre antiche statue di Santi, ora disperse. Finirono nelle mani di qualche notabile locale che ne fece cosa propria e una di esse, forse un Sant’Antonio, sarebbe stato venduto per 200.000 lire. La Cappella, già in disuso ed abbandonata da tempo, era collabente e fatiscente ed esposta alle intemperie, quando ricevette il colpo di grazia dal terremoto del 21 agosto 1962. La famiglia che nel frattempo aveva acquistato per pochi soldi il rudere, sfruttando i benefici della legge 1431 del 5 ottobre 1962, fin troppo elastica e permissiva, ricostruì sull’area di sedime di un appartamento per civile abitazione.
L’unica traccia che abbiamo della Cappella di palazzo è un’iscrizione latina in capitolo elegante sviluppantesi su sei righe, ormai abrasa e scalpellata: vi si legge a malapena D. O. M. (Deo Optimo Maximo), una data indecifrabile (forse 1770 0 1870) tra le lettere A. D. (Anno Domini) ed evidenzia tracce di altre lettere.
La pietra giace per terra nei presi del luogo in cui sorgeva la Cappella ed è utilizzata ora come sedile/panchina davanti ad altre dipendenze o ambienti del Palazzo.
Questi ultimi ambienti, dalla testimonianza dei proprietari costituivano le stalle e i depositi delle vettovaglie. La presenza di questi locali alquanto atipica per le costruzioni baronali dell’epoca è giustificata dall’andamento del terreno a declivio che non permetteva tali ambienti in una zona diversa da quella attuale. Il cortile interno conserva ancora, parzialmente ricoperto dal terreno, la pavimentazione a ciottoli di fiume e cotto, formante un disegno a stella. Dell’impianto originario del palazzo rimangono inalterati i muri perimetrali esterni ed interni alla corte, i balconi e le finestre realizzati con basamento in pietra lavorata nonché i portali d’accesso ai vari ambienti. La realizzazione dei muri perimetrali è tipica della tecnica costruttiva dell’epoca; questi sono infatti costituiti da telai in legno incrociati che assolvono all’importante funzione di contenimento degli elementi murari. Gli ambienti interni hanno perduto l’aspetto originario poiché per i frequenti terremoti si è reso necessario intervenire con dei muri interni a spina sacrificando gli ambienti. L’unico interno che ha conservato l’aspetto originario è la sala di rappresentanza sul lato Sud-Ovest del palazzo, con volta a padiglione, realizzata ed incannucciata con affresco a viticci e con al centro della volta un medaglione raffigurante l’Immacolata.
Arredo d’epoca le porte settecentesche costituite da cornici dorate con eleganti motivi vegetali: foglie lanceolate e frangiate, ornamenti stilizzati in girali, foglie e nastri, quasi un ricamo.
In buono stato di conservazione due consolle seicentesche realizzate con un originale disegno a nastri e volute, sul piano d’appoggio un marmo rosato a venature bianche. Fanno parte dell’arredo tre altre consolle molto rimaneggiate, due delle quali presentano fregi e decorazioni ad intarsio dorate, di fattura ottocentesca. Ai lati di una delle consolle del Seicento due mobili di fattura locale, degli inizi del Novecento.
Nella stessa sala un lampadario decò a tre lumi. Completano l’arredo quattro tele di fine Ottocento raffiguranti i quattro continenti”.
Subito dopo il terremoto, in compagnia del compianto Ing. Ferrante, imparentato con i Contardi, ebbi l’onore di entrare nelle stanze devastate dal terremoto nell’appartamento dei discendenti della Marchesa Lucia Capobianco.
Mi fu gentilmente concesso di scattare alcune foto e mi piace qui riprodurle.