Abbiamo visto nel capitolo precedente che la via Appia, la “regina viarum”, attraversava il territorio abitato dagli Hirpini e poteva essere anche non lastricata.
Nonostante le recenti scoperte archeologiche abbiano offerto un contributo sostanziale alla lunga diatriba sul percorso irpino di questa importantissima via, appare ancora problematico ed arduo, alla luce delle attuali conoscenze, stabilirne con certezza il tragitto ed il percorso particolareggiato. Proprio per questo sul tragitto di questa fondamentale ed importantissima via romana una nutrita ed appassionata schiera di studiosi ha avanzato in passato, e continua a farlo ancora oggi, ipotesi spesso fantasiose non suffragate da prove concrete, indizi validi, iscrizioni probanti, ecc. In questa furibonda diatriba si inseriscono spesso gli studiosi e gli appassionati locali, che, volendo far passare a tutti i costi l’Appia sotto il proprio campanile o sotto il balcone di casa, con gran foga si inventano prove, interpretano “pro domo sua” testimonianze letterarie e storiche, risultati di scavi, si inventano o scoprono toponimi, spostano ponti, ne scoprono di nuovi…ne costruiscono altri.
Siamo nel campo delle ipotesi…e quella più attendibile, allo stato, l’ha fornita il compianto Prof. Werner Johannowsky, in un suo qualificato articolo pubblicato, purtroppo postumo, sul Corriere del Mezzogiorno, facendola passare per la Valle dell’Ufita.
Werner era indiscussamente il massimo esperto, oltre che conoscitore ed amico, del nostro territorio e delle sue emergenze e problematiche archeologiche…e non era mosso da campanilismo a tutti i costi.
Quello del percorso della Via Appia attraverso il territorio abitato dagli Hirpini, è ancora un problema da risolvere…e speriamo che non diventi, col tempo e con le ipotesi fantasiose, una vera e propria questione. Magari il rinvenimento di una iscrizione potrebbe tagliare la testa al toro e dipanare definitivamente l’ingarbugliata ed intricata matassa…
Il Prof. Johannowsky, che mi onorava della sua amicizia, mi aveva preannunciato già da tempo che stava lavorando ad un articolo sulla Via Appia, con l’intento di offrire spunti di riflessione sulla vexata quaestio del suo percorso da Aeclanum al Pontem Aufidi. Per questo motivo mi aveva chiesto di accompagnarlo in un’escursione sul territorio ufitano, onde verificare e riscontrare “sul campo” le convinzioni che stava maturando. Lo feci ben volentieri e più volte, andandolo a prelevare a Grottaminarda, dove arrivava da Napoli in Pullman.
Con la mia Panda Country Club 4X4, utilissima ed attrezzata per raggiungere anche i posti più malagevoli, un giorno partimmo da Fioccaglia di Flumeri, dove era stato scoperto proprio da lui un abitato tardoellenistico, e percorremmo una vecchia strada, in alcuni tratti ancora antica e in battuto, in altri sistemata ed asfaltata, che seguiva un tragitto parallelo a quello della strada costruita in passato dal Consorzio Bonifica dell’Ufita. Oltrepassammo lo stabilimento IRISBUS, passammo per la frazione Murge sempre in agro di Flumeri, superammo quindi un crocevia e una delle strade che da qui si dipartivano andava verso il fiume, che raggiungeva in una località chiamata “Ponte rotto”, di cui si possono ancora vedere i resti, e che si trova a valle della contrada chiamata “Airila”, dove il Comune di Castel Baronia ha localizzato, ed in parte già realizzato, il PIP (Piano Insediamenti Produttivi). La strada, dopo aver attraversato il fiume Ufita, si dirigeva agevolmente verso la Pietra del Pesco di Frigento e verso la Mefite: era possibile vederla a perdita d’occhio correre tra i campi ben delimitati, in modo che si potesse ipotizzare anche una “centuriazione”. La strada attraversava una zona detta “Migliano” in territorio di Frigento e Werner pensò subito che si potesse trattare di un termine derivante da Miliarium o di un Praedium Aemiliani (Podere di Emiliano), considerato che nella stessa zona erano presenti diverse ville rustiche ed era stato recuperato anche un grosso frammento di colonna o di limite senza iscrizione, pertinente forse al periodo dei Gracchi. Raggiungemmo agevolmente, in quanto il tragitto era quasi rettilineo, il Vallone di San Nicola/Arbi, che in antico convogliava a valle le acque delle cospicue sorgenti delle Bocche di Trevico/Carife e quelle che confluivano in esso durante il suo percorso: nelle sue acque fresche, limpide ed abbondanti dovevano abbeverarsi gli armenti ed i pastori, che percorrevano il “Tratturo della Maddalena”, questo è il nome della strada che stavamo percorrendo. Qui, proprio sulla riva destra del torrente era stata individuata, e da me ripetutamente segnalata alla Soprintendenza, una villa rustica con annessa necropoli di epoca romana: sta ancora lì in attesa che qualcuno se ne occupi… e speriamo che non siano tombaroli! Eravamo già in tenimento di Castel Baronia. Ricordammo a noi stessi che la zona, in passato, ma anche nel presente, aveva restituito continuamente reperti archeologici riferibili ad abitati e a tombe sannitiche e romane. Dopo qualche centinaio di metri (il vecchio tratturo era stato asfaltato da poco…) incontrammo il Vallone dei Macchioni: una volta questo vallone convogliava nell’Ufita le acque freddissime e pure delle sorgenti Acquara e Tufara, ubicate a monte in prossimità di Castel Baronia, la cui portata era in passato di oltre 70 litri al secondo e facevano funzionare diversi mulini ad acqua, prima che il Consorzio Idrico dell’Alto Calore captasse le sorgenti e costruisse un acquedotto, scoprendo che i Romani già avevano fatto opere di sistemazione e captazione delle stesse; una massa d’acqua limpida scorreva a valle, per la gioia dei contadini che se la contendevano per irrigare campi e colture, mediante canalizzazioni costruite in terra battuta. In queste acque le “lavandare” lavavano i loro panni ed io ricordo che, da bambini, la bevevamo addirittura. Mia sorella una notte, mentre irrigava il tabacco, facendo compagnia a mia madre, catturò addirittura due capitoni, che se la sguazzavano felici in un solco…ma finirono in padella il giorno dopo.
Ora un poco più a monte del tratturo è stato creato un invaso, che raccoglie le acque piovane e le distribuisce, a caro prezzo, agli agricoltori, dotati di…tessera magnetica.
Dopo circa quattrocento metri raggiungemmo la località Isca del Pero, dove Werner e Giovanna Gangemi, Ispettrice archeologica di zona, avevano “gioiosamente” portato alla luce un insediamento pertinente alla facies culturale di Laterza: sotto una capanna giaceva lo scheletro di un inumato in posizione fetale, ossia rannicchiato, contornato da vasi preistorici. Avevo io stesso ripreso con la telecamera i momenti del recupero di quella tomba: Werner era raggiante, andava avanti e indietro sullo scavo, si chinava a guardare, saltellava felice come un fringuello, sorrideva a destra e a manca strofinandosi le mani, come era solito fare quando era particolarmente contento…non lo avevamo mai visto così! Giovanna spiegava, chiariva, faceva datazioni, chiedeva al suo superiore di far restaurare subito i vasi e i reperti che già si intravedevano, sapientemente spazzolati dagli operai: un’ansa a rocchetto, una decorazione a spina di pesce in prossimità dell’orlo di un vaso, lo scheletro faceva tanta tenerezza…era stato riaffidato alla madre terra in posizione fetale, come nel grembo materno, ma lo spazzolino e la sgorbia dell’operaio avevano messo a nudo i sentimenti e l’amore straziante di chi così lo aveva voluto seppellire. Io facevo domande ai due archeologi, che rispondevano provando e dando grande soddisfazione. Sono davvero orgoglioso di aver registrato quei momenti e conservo la cassetta religiosamente: l’ho riguardata qualche ora fa, ora che Werner non c’è più e Giovanna è “emigrata”, purtroppo, per il Veneto. Nei mesi successivi la Dott.ssa Giovanna Gangemi avrebbe presentato quella importante scoperta sulle riviste specializzate e nei convegni sulla Preistoria. Nello stesso sito era stata localizzata anche una grande villa romana (io avevo recuperato in superficie una sima in argilla a protome leonina consegnata al Museo Irpino) e tracce vistose di un’altra probabile necropoli sannitica. Isca del Pero si trova ai Piani di Castel Baronia, dove Serra di Marco degrada dolcemente verso l’Ufita.
Facemmo poi una breve sosta da mio fratello, che abita quasi a ridosso del luogo del ritrovamento; prendemmo tutti insieme un buon caffè e ricordammo i guai che avevamo fatto io e lui da giovani, unitamente a mio padre e mio zio Vito, quando negli anni Sessanta del secolo scorso, aravamo i campi con il primo trattore arrivato nella zona: tombe sconvolte dal vomere, vasi che ci divertivamo a rompere…beata ignoranza!
Ci dicevano che erano morti di colera e che si erano sepolti…da soli.
Superammo un altro importante crocevia, che segnava tra l’altro anche il confine tra i territori di Carife e Castel Baronia: qui una strada saliva per Serra di Marco, la zona più ricca di presenze archeologiche, un’altra scendeva verso il fiume (denominata sulle carte Tratturo della Maddalena, un’altra ancora proseguiva davanti a noi, in proseguimento di quella che stavamo già percorrendo.
Ci trovavamo nella località Piano la Sala a Valle di Carife, ubicata sulla destra del fiume. Qui erano stati effettuati scavi archeologici già negli anni ‘80 ed era stata scoperta una vasta necropoli sannitica del V secolo a. C.. Ma nel territorio erano emerse ed erano state esplorate anche altre due necropoli sannitiche, con centinaia di tombe datate tra il V e III sec. a. C.: Serra di Marco di Castel Baronia e Addolorata di Carife.
Proprio a Piano la Sala avevo vissuto i miei momenti più emozionanti, quando recuperai tra molti curiosi, lavorando fino a notte inoltrata, il ricco corredo della tomba n. 89: tenni tra le mani la statuetta del sileno che sacrifica un capro e il candelabro di cui era la cimasa; provai una indescrivibile ed immensa emozione quando mi resi conto che il vaso che stavo recuperando pezzo dopo pezzo era un cratere dipinto a figure rosse: per fortuna nessuno poté guardare nei miei occhi, nei quali si sarebbe potuta vedere tutta la mia commozione. Alla fine recuperai 22 reperti, che sarebbero stati esposti in occasione della mostra sui Sanniti, tenuta a Roma nel 2000.
Nel corso degli scavi, effettuati nella prima fase a monte del Tratturo, oltre alle tredici tombe recuperate in un terreno di mia proprietà, erano stati rinvenuti resti di fornaci sannitiche e poco più avanti, in località Torre/Cavallerizza erano emersi i resti di una fattoria dello stesso periodo.
Sempre a Piano la Sala mi ero ubriacato “alla grande” quando fu recuperata la tomba n. 60, appartenente ad una bambina e contenente numerosi vasi miniaturistici, tra cui un bellissimo tintinnabulum a forma di askos. Da mio padre avevamo imbottigliato il vino bianco, uno spettacolare tokai, tenevo le bottiglie nel vano portabagagli della mia macchina: piacque tantissimo anche…agli operai. Per me dovettero chiamare…il medico, perché la sbornia fu di quelle memorabili.
Ma torniamo alla nostra escursione: nello stesso territorio erano presenti anche notevoli tracce di ville e di piccoli e grandi impianti rustici di epoca romana. Ad Aia di Cappitella di Carife, proprio accanto ad un insediamento del Neolitico Antico e Medio, era stata rinvenuta e recuperata la stele funeraria di MARCUS MEVIUS, della quale si parla in altra parte del presente lavoro; a poche centinaia di metri ad Est, nella località Petrala, nella fase di realizzazione del nuovo Campo di Calcio, era stato scoperto ed esplorato un centro artigianale per la fabbricazione di laterizi dotato di più fornaci: anche questa eccezionale scoperta viene trattata in un capitolo apposito. Sempre a Piano la Sala, in prossimità della riva destra del fiume Ufita, era stata individuata una stazione ellenistica di culto del II sec. a. C., nella cui stipe votiva furono rinvenuti anche cospicui resti di balsamari fusiformi e da cui proveniva pure una statua acefala di Arpocrate a grandezza naturale in marmo pario, e del tipo del “fanciullo che strozza l’oca”, recuperata da Werner e da me presso l’operaio escavatorista che l’aveva trovata. Dopo aver consumato il solito panino, utilissimo e saporitissimo come non mai in questi frangenti, e dopo aver scambiato qualche battuta con il Ristoratore, proseguimmo la nostra esplorazione percorrendo sempre alcuni tratti dell’antico tratturo, che in più punti era ancora individuabile e ben visibile.
All’altezza della contrada, chiamata dialettalmente “Alivita” mostrai a Werner i resti di due tombe in tegoloni alla base di un’alta scarpata.
Proprio da qui si dipartiva un tratturello, dirigendosi nel letto del fiume, che guadava dopo qualche metro, proseguendo diritto verso Carmasciano, in agro di Guardia dei Lombardi, e quindi alla Mefite di Rocca San Felice, nelle cui acque solfuree i pastori immergevano le pecore che avevano la pelle malata.
Dopo qualche centinaio di metri, poco oltre il Silos Jannarone, superammo alla nostra sinistra Piano d’Occhio, in territorio di Guardia dei Lombardi: qui era stata individuata da tempo una grande villa rustica romana dotata di mosaici di impianto termale. Molti erano stati i ritrovamenti superficiali ed il sito era stato sottoposto a vincolo di tutela proprio dietro mia segnalazione. Il Professore ribadì che doveva essere proprio quella la Villa Trivici, in cui pernottarono Orazio e company.
Poco oltre superammo anche il ponte sull’Ufita e procedemmo verso Sferracavallo, percorrendo la strada che intanto si era spostata sulla sinistra idraulica del fiume. Ancora erano ben visibili a mezza costa le tracce dell’antico Tratturo. Raggiungemmo assai agevolmente, percorrendo la strada consortile, sempre un po’ dissestata, San Martino, località in cui era stata individuata un’altra villa rustica romana, superammo poi il Vallon Castello Vecchio, toponimo che destò molto interesse in Werner, che pensò subito a Romulea: ci ripromettemmo di andare in seguito a vedere più da vicino la località così denominata, alla ricerca di tracce, ma non lo abbiamo potuto più fare, purtroppo. Proprio questo vallone, in cui una volta funzionavano molti mulini ad acqua, convogliava a valle le acque sorgive delle “Festole/Fistole” di Vallata, ora captate ed immesse nell’acquedotto di quel Comune.
Intanto durante il tragitto ricordai che nel territorio di Vallata, ma anche in quello di Anzano, esistevano toponimi quali Posta Vecchia, Postecchia (Piccola posta) e Posta della Corte: Werner spiegò che poteva trattarsi anche di termini derivanti da “Statio posita”, da cui Posta: il percorso tra una città e l’altra al tempo dei Romani era percorso, anche per recapitare la posta, su carri ed organizzato in stazioni di cambio dei cavalli, chiamate proprio in questo modo: Da qui sarebbe derivato poi il nome stazione di posta e questo lo convinse ancora di più che eravamo “sulla strada giusta”.
Dopo una breve salita giungemmo alla frazione di Sferracavallo, in agro di Vallata, collocata esattamente sulla linea spartiacque tra il Calaggio e l’Ufita, entrambi aventi origine dall’altipiano del Formicoso. Il toponimo è comune anche ad altre località ed indica un posto in cui, a causa della salita ripida, i cavalli si “sferravano”, ossia perdevano addirittura i ferri. La strada che avevamo percorso proseguiva poi verso Est in direzione della Carosina, un’altra frazione sempre di Vallata e si vedeva chiaramente che proseguiva ancora oltre, a mezza costa, ormai sulla destra idraulica del fiume Calaggio, passando al di sotto di Oscata di Bisaccia, in discesa in direzione del casello autostradale di Lacedonia.
Werner quel giorno si convinse ancora di più che la strada da noi percorsa da Fioccaglia a Sferracavallo, in una valle molto bella, in passato assai ricca di acque, di pascoli e di terreni da coltivare, era stata sicuramente una grande via di comunicazione preromana; essa fu potenziata successivamente a seguito della “romanizzazione” della zona, avviata fin dal periodo post annibalico. I numerosissimi siti e reperti archeologici, affiorati nella valle dell’Ufita e sulle alture circostanti costituivano la sicura testimonianza della frequentazione e della presenza dell’uomo, almeno fin dal tempo di una fase ancora non molto avanzata del Neolitico; la datazione del sito preistorico di Aia di Cappitella di Carife era stata confermata anche dalle analisi di campioni di carbone eseguite presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università La Sapienza di Roma.
La via che avevamo percorso, se non era l’Appia vera e propria, poteva essere stata anche una scorciatoia, una diramazione o una vera e propria variante di valle della Regina viarum.
Successivamente Werner mi telefonò altre volte, per mettermi al corrente di ciò che aveva capito durante quell’escursione e delle convinzioni che stava maturando. Mi chiese altre informazioni, poiché, da ex accanito cacciatore, conoscevo assai bene e in ogni angolo la “mia” Valle: qui del resto ero nato e qui avevo trascorso i primi trent’anni della mia vita.
Mi confermò poi più volte che stava lavorando ad un articolo sul percorso dell’Appia in territorio irpino e me ne promise copia, cosa che faceva abitualmente con tutto ciò che scriveva.
L’articolo sull’Appia fu realmente scritto da Werner Johannowsky, ma non riuscì a pubblicarlo: come già detto in precedenza, fu pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno dopo la sua morte, su iniziativa di Luisa Melillo e di Vito Faenza.
WERNER JOHANNOWSKY: IL TRATTO IRPINO DELLA VIA APPIA
(Pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno del 6.1.2010)
“Dopo che nel 315, poco dopo l’inizio di quella che viene chiamata «terza guerra sannitica», un esercito sannitico era giunto fino ad Ardea a breve distanza da Roma e solo l’anno successivo i Romani erano riusciti a riprendere il controllo della situazione in Campania, si manifestò l’esigenza di collegare Capua (l’odierna S. Maria Capua Vetere) con Roma per mezzo di una strada meno esposta alle incursioni sannitiche della «via Latina», che seguiva le valli del Sacco e del Liri e con un tracciato molto vicino a quelli attuali della via Casilina, dell’Autostrada A1 e della ferrovia. Su iniziativa del censore Appius Claudius Caecus tale disegno fu attuato tra il 312 ed il 308 a.C., scegliendo un percorso più vicino alla costa, che lambiva nei passaggi obbligati presso Terracina, a Formia e presso Mondragone, il mare. Ovviamente si trattava, in quell’epoca, di una via non lastricata, anche se con una massicciata di pietrame, ma già con lunghi tratti rettilinei nelle pianure e nelle zone di bassa collina tracciati ricorrendo alla tecnica usata da pochi decenni anche in ambito romano per le distribuzioni agrarie.
Successivamente, dopo una nuova offensiva sannitica, furono create a difesa della nuova vi, ma anche della rotta marittima, nel 296 a.C., le colonie dei cittadini romani di Minturnae e di Sinuessa presso i porti della foce del Garigliano e immediatamente a nord del Massico. Dopo la vittoria su Pirro, re dell’Epiro, che concluse nel 276 a.C. nei campi Arusini, presso Malventum, la guerra contro Taranto, verso la metà del III secolo a.C., quella che popi venne chiamata “regina viarum” fu prolungata per migliorare le comunicazioni con le colonie di diritto latino e quindi semiautonome da Roma, ma facenti sempre parte dello stato romano nelle terre da poco conquistate. Quelle toccate dall’Appia erano Beneventum, creata nel 268 con un nome meno “infame” nel luogo di Malventum, Venusta (Venosa), dedotta nel 291 a.C. a conclusione della conquista dell’Irpinia, e Brundisium (Brindisi) divenuta nel 254 a.C. la pedana di lancio dell’espansionismo romano verso oriente, ma divennero raggiungibili altre località, fra queste Luceria.
Dopo gli attraversamenti, in gran parte rettilinei, della pianura campana ad est di Capua, della valle tra Arienzo ed Arpaia, dov’era stato teso l’agguato all’esercito romano da parte dei sanniti nel 321 a.C., e dall’altopiano in cui, nel luogo dell’attuale Montesarchio, era Caudium, la strada utilizzava lungo tutto il tratto appenninico percorsi obbligati, frequentati già nella preistoria per i traffici tra la Campania e la Puglia. Dall’altopiano caudino la via scendeva verso la conca beneventana per la valle del Cervo attraversando tale fiume con tre ponti alla fine del I secolo a.C., distrutti, in parte durante la seconda guerra mondiale, e, in parte, nel corso della risistemazione dell’attuale strada statale, intorno al 1970, ed entrava poi a Benevento per il “Ponte Leproso”, di cui è in gran parte conservata, accanto ai rifacimenti più tardi in laterizio, la struttura di età augustea rivestita di grandi blocchi di pietra calcarea. Dalla “porta Summa” attualmente incorporata nella “Rocca dei Rettori”, accanto al Castello di distribuzione del ramo dell’acquedotto augusteo alimentato dalle sorgenti di Serino, aveva inizio un tratto di 15 miglia, circa 22 chilometri, rifatto tra il 118 ed il 126 d.C. all’espoca del principato di Adriano, che giungeva fino ad Aeclanum, uno dei centri più importanti dell’Irpinia, come attestano alcuni cippi miliari.
In quell’epoca vennero create su pilastri preesistenti le arcate in laterizio del ponte sul Calore, attualmente chiamato “ponte rotto”, ed in almeno una di esse fu inserito un mulino ad acqua il cui prodotto poteva essere trasportato grazie alla navigabilità del fiume, certamente più ricco di acque rispetto ad oggi, fino alla foce del Volturno e per via marittima altrove. Da Aeclanum, i cui resti sono stati parzialmente messi in luce a Passo Eclano, la via scendeva verso l’Ufita per seguirne poi la valle fino al valico di Sferracavallo presso Vallata, alto non più di 700 metri sul livello del mare e scendere poi per la valle del Calaggio-Carapelle, evitando le creste più soggette ad innevamento e più ventose, lungo le quali si snoda l’attuale strada statale. A Fioccaglia di Flumeri su di un pianoro dominante la confluenza dell’Ufita con la Fiumarella e dove si dipartivano dall’Appia la “via Aemilia” per Aequum Tuticum (che sorgeva sul valico tra le valli del Miscano e del Cervaro) ed una strada che portava ad Ordona, l’antica “Herdonia”, seguendo il corso della Fiumarella, sono stati rinvenuti i resti di un abitato sorto nel tardo II secolo a.C. in rapporto con le distribuzioni agrarie promosse da Tiberio e Caio Gracco, ma distrutto già tra il 90 e l’89 a.C. e di cui ignoriamo il nome e lo stato giuridico.
Più oltre, sotto Carife, presso l’importante centro sannitico di Romulea, le cui aree sepolcrali hanno dato luogo a ritrovamenti molto importanti per la conoscenza della cultura degli Hripini tra il V ed il IV secolo a.C., doveva essere il “Trivicus” con la villa dove si fermarono Orazio e Mecenate durante il viaggio da Roma a Brindisi nel 37 a.C. narrato in maniera gustosa dal poeta nella quinta satira del primo libro, prima di affrontare l’erta del valico e proseguire poi per la tappa successiva, che era probabilmente Ausculum (Ascoli Satriano) e non Herdonia (Ordona), come alcuni ritengono. Il nome attuale di Trevico è, infatti, una ricostruzione dotta del periodo umanistico, favorita dal nome di “Vico” del borgo sorto nell’alto medio evo per motivi di difesa e divenuto centro di una baronia e sede vescovile. Nessun legame con l’antica Appia: non avrebbe, infatti, avuto alcun senso far salire la strada più importante di collegamento con la Puglia a 1.100 metri di altezza.
DALL’HIRPINIA AL MARE
Da Aquilonia, il cui nome attuale, Lacedonia, ricorda la legenda in alfabeto osco “AKVDVNNIAD” su una delle monete rarissime che vengono datate poco dopo la metà del III secolo a.C. e che non è da confondere con il luogo dove ci fu la battaglia tra Romani e Sanniti nel 293 a.C. (probabilmente questo era Montaquila nell’alta valle del Volturno) la cui stazione viaria doveva essere nella zona dell’attuale casello autostradale, l’Appia proseguiva poi verso la soglia di Candela, da dove si diramava un diverticolo per Ausculum (Ascoli Satriano) per raggiungere, dopo aver attraversato l’Ofanto, Venosa. Tra le strade di una certa importanza, che si innestavano a tale percorso dovevano essere, oltre a quella tratturale da Pescasseroli a Candela, risalente nel suo tracciato ad età preromana, una strada che probabilmente da Sferracavallo, presso Vallata, saliva sull’altopiano del Formicoso per proseguire per Compsa (Conza), altro importante centro irpino, attraverso l’alta Valle del Sele fino alla via da Capua a Reggio, creata intorno al 113 a.C.
Successivamente, verso la fine del III secolo, furono potenziati i collegamenti lungo lo spartiacque utilizzando quelle che era già una importante via tratturale tra il Sannio e la Lucania con la strada che prese il nome da Massimiano Erculeo, a capo dell’ impero assieme a Diocleziano, per risollevare l’economia delle zone interne. Con il venir meno dell’autorità centrale nel VI secolo cessò anche la manutenzione delle strade e successivamente le lotte fra Longobardi e Bizantini e tra i principati longobardi di Benevento e Salerno, portarono allo abbandono di centri in posizione meno difendibile, tra cui Caudium ed Aeclanum, ed all’arroccamento su cocuzzoli già abitati e frequentati in antico. Sorsero così Frigento, che divenne la nuova sede di Vescovi di Aeclanum, Guardia Lombardi e Bisaccia, per cui il percorso della via Appia venne spostato sulle creste e sull’altopiano del Formicoso, utilizzando comunque vie tratturali preesistenti, e più a nord vennero a crearsi tra l’altro Vico e Ariano, da cui era pure agevole controllare i passaggi più agevoli fra la Campania, Puglia e Basilicata, mentre sopravvissero Aquilonia e Conza, che divenne un importante centro di potere.
Le situazioni che abbiamo cercato di riassumere molto brevemente hanno lasciato tracce e testimonianze, anche monumentali, che gli eventi, anche disastrosi, non sono riusciti a cancellare. Per facilitarne la conoscenza e la tutela e programmarne la valorizzazione, la Regione Campania ha ritenuto di poter elaborare degli itinerari turistico culturali basati sulle antiche vie romane, allo scopo di contribuire alla rinascita culturale e con ciò in termini compatibili all’economia delle aree interne, in collaborazione con gli enti locali ed attraverso questo consentire la riappropriazione, da parte delle popolazioni, di un patrimonio insostituibile. Quanto rimane della via Appia in area Irpina, sono i tratti dove questa non doveva essere selciata e lastricata, in zone povere di pietra lavorabile i lastroni probabilmente sono stati divelti e riutilizzati. Dovrebbero essere tutelati e restaurati, inoltre i ponti: tra questi quello di Tufara e il “Ponte Leproso” di Benevento, in aree ormai urbanizzate , ma anche “Ponte Rotto”, Tra Calvi e Apice, in una cornice paesistica praticamente intatta, per cui il comune limitrofo di Mirabella Eclano ha proposto già da tempo la creazione di un’oasi naturale.
Per poter assolvere seriamente, ed in maniera dignitosa, a tali compiti questi dovranno munirsi di personale altamente qualificato in maniera tale da poter essere di supporto alle Soprintendenze nella tutela e la catalogazione (e pubblicazione) dei materiali. In questo modo potranno contribuire efficacemente a creare posti di lavoro, tra l’altro anche per il restauro e la documentazione, assicurando anche un solido indotto. Misure che non possono essere più procrastinate se si vuole, veramente, procedere al rilancio dell’economia, della cultura e del turismo in area irpina.
Mirabella Eclano ha proposto già da tempo la creazione di un’oasi naturale.
Ma vanno anche portate avanti le misure per una migliore tutela dei complessi monumentali antichi toccati dalla via, per cui sono necessari gli espropri quale premessa e fruizione come per l’area dove sorge l’antica “Aeclanum” o l’insediamento urbano a Fioccaglia di Flumeri, che per la sua fine violenta e repentina, ha, per il periodo conclusivo della romanizzazione del Sannio un valore simile a quello dei complessi sepolti dal Vesuvio in età imperiale, anche se lo stato di conservazione è minore. A completare il quadro delle culture che si sono succedute dalla preistoria al Medio Evo (ed oltre) occorrono i musei, luoghi non troppo distanti dai centri antichi, di cui quello dell’antica Caudium è in avanzata fase di realizzazione (nel Castello di Montesarchio), mentre quello comprensoriale previsto per l’area della Baronia a Carife, completo nelle strutture, attende ancora l’allestimento. Naturalmente per tutto ciò è essenziale risolvere i problemi di gestione, il che, con l’entrata in vigore della legge Bassanini potrà essere risolto solo attraverso una effettiva collaborazione tra gli organi competenti dello Stato, della Regione e gli enti locali.
Per poter assolvere seriamente, ed in maniera dignitosa, a tali compiti questi dovranno munirsi di personale altamente qualificato in maniera tale da poter essere di supporto alle Soprintendenze nella tutela e la catalogazione (e pubblicazione) dei materiali. In questo modo potranno contribuire efficacemente a creare posti di lavoro, tra l’altro anche per il restauro e la documentazione, assicurando anche un solido indotto. Misure che non possono essere più procrastinate se si vuole, veramente, procedere al rilancio dell’economia, della cultura e del turismo in area irpina” (1).
NOTE:
Dal CORRIERE DEL MEZZOGIORNO del 6.1.2010.
Raffaele Loffa