CARIFE 1943: UN ANNO DA RICORDARE

Nel corso del 1943 nel nostro Comune, con l’aiuto della levatrice condotta Pasqualina Borriello (i Carifani la chiamavano Donna Pasqualina) nacquero complessivamente 67 bambini: 47 femmine e 20 maschi; di questi due femmine nacquero morte, un maschio ed una femmina morirono lo stesso giorno in cui videro la luce, due gemelli, un maschio ed una femmina, morirono dopo 17 giorni di vita, una femmina morì all’età di 4 mesi.
Sempre nel corso del 1943 furono celebrati 10 matrimoni (eravamo in guerra…) e 4 Carifani si sposarono in altri paesi; tra questi Michele Loffa, nato l’8 Febbraio 1924 da Raffaele e da Maria Ripalda Costantino, che il 23 Marzo 1943 si sposò a Sturno con Clotilde Stanco, nata il 29 Aprile 1924 da Nicola e da Grazia Stanco: erano mio padre e mia madre ed avevano entrambi 19 anni; il 26 Gennaio 1944 nacque l’autore di questa ricerca.
Durante il 1943 morirono 47 persone: 26 femmine e 21 maschi e tre di loro morirono tragicamente; due altri concittadini morirono lontani dal loro paese d’origine.
Queste cifre laconiche, scarne ed aride non ci danno l’idea di quella che è stata la vita delle persone, la storia di famiglie fatta di gioie immense e dolor atroci, di soddisfazioni e di sofferenze inaudite. Quando scorriamo i Registri in cui viene riportato lo stato civile delle persone ed annotati i fatti più importanti della vita umana (nascita, matrimonio e morte) ciò che leggiamo ci lascia spesso indifferenti e non suscita particolari emozioni. E’ nel ricordo di chi ha percorso un pezzo di strada insieme a loro che va cercata la memoria di chi non c’è più: ed è proprio ciò che mi prefiggo in questa breve ricerca. Occorre partire dalla storia di quell’anno particolare e “ricordevole”, come dicono qui a Carife: il 1943.
Il 9 Settembre del 1943, un numero incredibile di navi con quasi 200.000 militari inglesi ed americani sbarcavano sulle coste della Piana del Sele per l’Operazione “Avalanche”, la più grande manovra militare che il Mediterraneo avrebbe mai conosciuto. Fu quello un evento che cambiò la storia, l’Italia, la guerra mondiale e il destino di tutto il mondo: lentamente, ma inesorabilmente, l’avanzata degli Alleati spinse sempre più su verso il Nord i Tedeschi, fino alla battaglia di Mignano-Monte Lungo, conclusasi il 16 Dicembre 1943 con la conquista del Monte Lungo. Le perdite subite dagli Alleati furono enormi.

Subito dopo lo sbarco degli Alleati sulle coste della Piana del Sele, durante la predisposizione e lo sbancamento del terreno per costruire una pista di atterraggio per gli aerei, fu scoperta una vasta necropoli e un sito archeologico preistorico appartenente alla facies culturale nota come “Civiltà del Gaudo”, che prende nome dalla località omonima presso Paestum, a circa un km. dall’ antica città. La necropoli, scoperta casualmente alla fine del 1943, e in parte distrutta, fu esplorata sistematicamente dal 1945 al 1947 dalla Soprintendenza alle Antichità di Salerno. Le tombe, incavate in un banco di roccia calcarea tenera, sono del tipo detto “a forno” o “a catacomba”, con l’accesso costituito da un vestibolo a forma di pozzo circolare nel quale è l’ingresso per una o due celle, dinanzi al quale a guisa di porta è una grande lastra di pietra in posizione verticale. All’interno delle celle sono le deposizioni, più o meno numerose; in esse si sono trovate da un minimo di due a un massimo di venti scheletri, che originariamente erano in posizione accoccolata o rannicchiata. I corredi consistono in vasi d’impasto ed armi di selce, solo in qualche caso di rame e, in alcuni arnesi di selce, a contorno geometrico.

Un paio di mesi dopo la cruenta battaglia per la conquista del Monte Lungo, nel mese di Febbraio del 1944, l’Abbazia di Montecassino fu distrutta e rasa al suolo dagli Inglesi e dagli Americani, con un bombardamento che è stato considerato tra i più violenti della storia: si trattò di un tragico errore e gli Americani l’hanno poi ricostruita così com’era prima.

UN UOMO PIOVUTO DAL CIELO…

Il 1943 non fu certo un bell’anno per Carife e per i Carifani: nel mese di Settembre di quell’anno un aereo inglese fu colpito ed abbattuto dalla contraerea tedesca, appostata a Guardia dei Lombardi; il pilota, fortunatamente per lui, riuscì a paracadutarsi e prese terra proprio nella vicinanze di Piano d’Occhio, dove fu subito raggiunto da alcuni nostri concittadini. Il primo ad arrivare fu Raffaele Bianco, nato il 31 Dicembre 1878 da Giambattista e da Maria Stanco; il 20 Settembre 1903 Raffaele sposò Maria Santoro, della quale rimase vedovo il 26 Ottobre 1944. La moglie Maria Santoro, che era nata il 19 Settembre 1883 da Antonio e da Rosa Micciolo, morì per “nefrite cronica” il 23 Gennaio 1953.
Quando Raffaele, il padre di Antonio “Lu Zuopp’”, arrivò vicino al pilota si accorse subito che era molto spaventato, addirittura terrorizzato, e tremava come una foglia; tra l’altro non conosceva una parola di italiano e temeva di trovarsi fra nemici; fu subito rassicurato e nel frattempo accorsero sul posto anche altre persone; da Carife arrivò anche Salvatore De Angelis, che conosceva bene l’inglese, essendo stato a lungo in America. Il giovane ed impaurito pilota capì subito che si trovava tra gente amica ed ospitale e subito si rincuorò; fu nascosto ai Tedeschi, che erano ancora presenti sul nostro territorio e che lo cercavano attivamente; qualche giorno dopo alcuni volenterosi concittadini facilitarono il suo ricongiungimento con i commilitoni inglesi, che erano già presenti nei pressi di Grottaminarda. Qualcuno degli anziani ha riferito che il paracadute rimase nelle mani di Raffaele Bianco, che ne recuperò la stoffa e ne fece anche vestiti (dicono addirittura un abito da sposa).
Salvatore De Angelis era nato a Carife il 27 Novembre 1898 da Giuseppe e da Prassede Lodise; il 13 Aprile 1929 sposò Maria Grazia Izzo. Partecipò alla guerra del 1915/18 e fu ferito. Emigrò a Filadelfia negli Stati Uniti e per questo fu cancellato dall’Anagrafe di Carife il 25 Aprile 1935, ma di tanto in tanto faceva ritorno al suo paese di origine. Maria Grazia e Salvatore ebbero due figli:

  • PRASSEDE, nacque il 19 Gennaio 1930 e il 25 Ottobre 1953 sposò il Maestro Giuseppe Carsillo; entrambi riposano nel cimitero di Carife;
  • LORENZO GIOVANNI BATTISTA, nacque il 10 Agosto 1940 e vive, unitamente alla sua bella famiglia, a Filadelfia negli USA.

 

CIARUOLO 19 SETTEMBRE 1943: UNA TRAGICA FATALITA’…

Fu più sfortunata invece una donna di Carife, tale D’Ambrosio Felicia (Felicella), nata il 6 Giugno 1904 da Francescantonio (soprannominato “Sfrattacascione”) e da Angela Crincoli; il 15 Dicembre 1923 sposò Alessandro Mirra, un “venditore ambulante di chincaglierie”, che era rimasto vedovo già due volte in precedenza e con molti figli alle spalle (Aveva sposato prima Florinta Pezzano e poi Filomena Gallicchio).

Da Felicia D’Ambrosio e da Alessandro Mirra nacquero diversi figli:

  •  Il 1° Marzo 1923 nacque ANGIOLINA, che morì in tenera età;

  • Il 12 Gennaio 1925 nacque FIORENZA, che fu cancellata dall’Anagrafe il 22 Luglio 1940 per     emigrazione a Farnese, in provincia di Viterbo; morì a Cercola il 9 Settembre 2007;

  • Il 25 Agosto 1927 nacque in Via Margherita GERARDINA MADDALENA; il 13 Ottobre 1940 fu cancellata per emigrazione a Guardia dei Lombardi, da cui rientrò in data 20 Agosto 1941; si sposò il 13 Agosto 1950 con Antonio Di Marco ed emigrò a Santa Anastasia (Napoli); Gerardina Maddalena morì a Pollena Trocchia (Napoli) il 27 Ottobre 1990;

  • Il 24 Novembre 1929 nacque EMILIO, che il 13 Ottobre 1940 fu cancellato dall’Anagrafe come i fratelli per essere emigrato a Guardia dei Lombardi; il 28 Agosto 1941 fu reiscritto proveniente da Guardia, ma vi fece ritorno e il 9 Luglio 1943 fu cancellato di nuovo cancellato dall’Anagrafe del Comune di Carife;
  • Il 1° Marzo 1932 nacque ANGIOLINA, che fu cancellata il 13 Ottobre 1940 per essere emigrata a Guardia dei Lombardi con la famiglia; Angiolina fu cancellata dall’Anagrafe di Carife il 4 Settembre 1950 per essere emigrata a Cercola (Napoli).

ALESSANDRO MIRRA, “merciaio ed ambulante di chincaglierie”, divenuto nel frattempo “ebanista”, morì il 5 Febbraio 1937 in un Sanatorio antitubercolare di San Severino Rota (Salerno); L’atto di morte fu ricevuto e trascritto il 15 Dicembre 1937 da Michele Mirra di Vito, in qualità di delegato Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Carife con atto sindacale del 29 Dicembre 1936; Alessandro Mirra con tre mogli e con i suoi 16 figli fu il più prolifico di tutti i Mirra di Carife:
Morto il marito, Felicella “Sfrattacascione”, rimasta vedova, il 1° Febbraio 1938 si sposò nuovamente con un ragazzo molto più giovane di lei, che si chiamava Alfredo Di Gianni, un ventenne calzolaio, che era nato a Bisaccia il 25 Gennaio 1917 da Antonio e da Giuseppa Biunno. La promessa di matrimonio fu ricevuta dal Podestà Pietro Grimaldi e il matrimonio in Chiesa fu celebrato dal Canonico Don Vincenzo Tedeschi. Alfredo fu iscritto nell’Anagrafe del nostro Comune il 7 Febbraio 1938, subito dopo il matrimonio. Il 13 Ottobre 1940 tutta la famiglia si trasferì a Guardia dei Lombardi, da dove fecero ritorno meno di un anno dopo e furono reiscritti il 20 Agosto 1941, con residenza e domicilio in Via Roma 208.
Dalla coppia il 13 Aprile 1943 nacque una bambina che chiamarono GIUSEPPINA, che morì di “catarro intestinale” prima del compimento del 4° mese di vita.
Il 19 Settembre 1943 Felicella uscì di casa per recarsi a San Leo, dove presso i coloni di don Giocondo Santoro lavorava a garzone Emilio, il suo unico figlio maschio, che badava anche al bestiame. Qui spesso faceva qualche lavoro anche lei in cambio di un tozzo di pane. Giunta all’incrocio tra la via che proveniva dalla Contrada Ciaruolo e la Nazionale, imboccò l’antica via che veniva da Carife e dalla “Conca”, scendeva verso San Leo e di qui proseguiva poi per le sorgenti Acquara e Tufara di Castel Baronia: fatti pochi passi, una trentina di metri al massimo, incominciò a raccogliere della legna secca nella macchia per farsene un fascio; mentre faceva questo lavoro “sentì” arrivare qualcosa da lontano, senza capire cosa fosse: se si fosse distesa per tempo a terra non le sarebbe successo niente, ma mentre era in piedi fu colpita alla testa da una scheggia di spezzone incendiario lanciato da un aereo inglese e morì a soli 38 anni. Sul suo cartellino anagrafico fu scritto che la morte era avvenuta “per azione di guerra – bombardamento aereo”.
Orazio Salvatore, tornato a Carife a piedi da Roma proprio in quei giorni, dopo sette giorni di sfiancante viaggio, ricorda chiaramente che l’aereo sganciò lo spezzone quando si trovava in volo all’altezza della Chiesa di Carife. Tra il nostro paese e quello di Castel Baronia erano accampati alcuni soldati tedeschi, che stando al racconto di Vincenzo Lomaistro, fortunatamente non si comportarono male con noi, contrariamente a quanto accadeva altrove.
Vincenzo racconta spesso di quella volta in cui ebbe un incontro “ravvicinato” e sicuramente non desiderato nei pressi del “Castagnone” con dei soldati tedeschi che viaggiavano a bordo di una camionetta. Era poco più che un ragazzo e ritornava quella sera a Carife, con qualche chilo di farina sulle spalle, dal mulino dell’Acquara di Castel Baronia, dove aveva macinato un po’ di grano (spesso in tempo di guerra lo si faceva di contrabbando e di nascosto). Impaurito e tremante, bianco come la carta, fu fatto salire a bordo del mezzo militare e già temeva il peggio. Proseguirono verso il paese e quando arrivarono al Piano dei Cavalieri fu fatto scendere e gli fu dato anche un astuccio di caramelle. Quando arrivò a casa raccontò l’avventura alla mamma, che con disappunto di Vincenzo buttò via le caramelle, temendo che fossero avvelenate: anche presso di noi i soldati tedeschi erano temuti e non godevano di buona fama e considerazione.

PIANO D’OCCHIO 3 OTTOBRE 1943: QUEL MALEDETTO FULMINE…

L’evento che suscitò più commozione si verificò il pomeriggio del 3 Ottobre 1943 nella località Piano d’Occhio, ai confini con il territorio di Guardia dei Lombardi.
Che il tempo sarebbe stato cattivo il giorno dopo lo si capì già il giorno precedente: il sole era tramontato “insaccandosi” in una coltre di nuvoloni neri dai contorni assai luminosi. La presenza dei “torrioni” o “catuozzi” – così vengono chiamate queste nuvole ancora oggi a Carife – davanti al sole che sta tramontando è, almeno per la sapienza popolare, un sicuro presagio di tempo cattivo per il giorno successivo.
Spesso davanti al focolare, conversando, si traevano auspici per il futuro o udendo il verso inquietante di una civetta o guardando ed ascoltando il crepitìo e la direzione delle scintille provenienti dai tizzoni che ardevano e sfrigolavano nel camino (“La ciumm’nera”). Gli anziani, vedendo poi la fiammella ondeggiante della luce ad olio fare il “fungo” sul “lucigno” che ardeva, o guardando il gatto accovacciato davanti al fuoco passarsi l’orecchio con la zampa inumidita dalla lingua per “pulirsi la faccia e la bocca”, facevano le previsioni del tempo per i giorni successivi…e spesso si avveravano. Gli anziani sentenziavano convinti: “Quann la gatta s’ passa la recchia…adda chiove’”.
Noi ragazzi eravamo affascinati dai racconti dei nostri nonni e degli anziani in genere: Il focolare era il centro intorno al quale tutto ruotava: davanti ad esso, magari in compagnia dei vicini: ci si sedeva in cerchio su scanni e sedie e si sgranocchiavano ceci abbrustoliti, si mangiavano patate cotte sotto la cenere ardente o saporite castagne abbrustolite sulla brace; si parlava della raccolta imminente delle olive o di altri lavori nei campi e si ascoltavano racconti fantastici ed esperienze di vita. Al tenue chiarore emanato dalla fiammella di una piccola lucerna ad olio (“la lucia a uoglio”) le nostre fantasie di bambini, e spesso i nostri sogni, si popolavano di esseri misteriosi: “scianare”, “scazzamarieddi” e “pump’nar’” erano protagonisti nei racconti dei vecchi. Io personalmente ero affascinato soprattutto dallo “scazzamarieddo”, una specie di piccolo gnomo peloso dal cappello rosso, che talora di notte veniva a sdraiarsi sul tuo corpo ed il suo peso aumentava sempre di più; bisognava ingaggiare una vera e propria lotta per scuoterselo di dosso, ma se fossi riuscito a prendergli il cappello avresti potuto chiedergli qualunque cosa e soprattutto di “cacare denari”, buona sorte, amore, e quant’altro di buono avresti voluto ottenere dalla vita: lui te l’avrebbe dato…e noi ci credevamo. In paese ancora oggi gli anziani raccontano avventure ed incontri con questo simpatico ed inoffensivo… mostriciattolo.
Poi purtroppo arrivò la radio e si ascoltò più lei e…meno gli altri. La voce caratteristica ed inconfondibile del cronista Niccolò Carosio ci faceva vivere le emozioni del calcio. Arrivarono nelle nostre case le canzoni del festival di San Remo e il giorno dopo tutti potevano canticchiarle per le vie e i vicoli del paese o durante i lavori nei campi. L’avvento del pibigas spense il fuoco nel focolare e tutto cambiò: la mamma mise da parte l’affumicata padella di ferro nella quale riscaldava la pasta asciutta avanzata nei giorni precedenti (e che sapore aveva quella pasta…), scomparve anche la “pignata” dal focolare e abbiamo rimpianto per il resto della nostra vita il sapore dei ceci e dei fagioli, che venivano cotti in essa. Spesso ci scottavano le dita cercando di prenderne una manciata “per vedere se erano cotti”. Ma la fame era davvero tanta…
Quando poi arrivò la televisione diventammo un po’ tutti schiavi di questo nuovo mezzo di comunicazione, che conquistò grandi e piccini. Lassie, Rin Tin Tin, Furia, Zorro, Mike Bongiorno con i suoi quiz, Mario Riva, il Mago Zurlì, Carosello, Tribuna politica, i Documentari, le previsioni del tempo del colonnello Edmondo Bernacca sconvolsero le nostre abitudini di vita: non andammo più a letto…con le galline o molto presto la sera, parlammo sempre meno in casa e fra di noi ma, in compenso, i nostri sogni si popolarono delle avventure appena viste e spesso ne diventavamo protagonisti; ci tornavano in mente, turbando i nostri sogni giovanili, le belle e procaci vallette e le “Signorine buonasera”, come da subito furono chiamate le annunciatrici, delle quali eravamo tutti un po’ innamorati…
Per addormentarci sognavamo gli intervalli e contavamo le pecore, che pascolavano tranquille al suono di un’arpa…
Allargammo le nostre conoscenze a tutto il mondo, conoscemmo storie e culture lontane, ma perdemmo tristemente di vista noi stessi, la nostra cultura, la nostra storia, i nostri vicini… che ancora non abbiamo ritrovati e temo che non ritroveremo più, e non solo perché sono morti…
Il gatto, affamato e sornione, meditava intanto di divorare il saporito ”lucigno” imbevuto d’olio, una volta raffreddato dopo che tutti erano andati a letto…e gettava uno sguardo distratto, apparentemente disinteressato e sospiroso al pezzo di lardo o di “puttur’nedda” appesi alla pertica (Tanto va la gatta al lardo…che ci lascia solo l’uncino).
Spesso il gatto, era troppo “cenerentolo”, aveva il pelo bruciacchiato qua e là da scintille o da contatti accidentali con qualche carbone o tizzone incandescente. Sonnecchiava davanti al fuoco e se lo prendevi in braccio potevi sentire il suo ron…ron quando faceva le fusa. Era libero di entrare e uscire di casa a suo piacimento, specialmente di notte e nel periodo degli amori, attraverso un apposito foro circolare praticato nella parte bassa della porta o della “purtedda”, una sorta di seconda porta a metà altezza. Spesso il gatto faceva finta di non vedere qualche topolino, che si aggirava tranquillo ma guardingo tra i sacchi di grano trebbiato da poco: già sapeva come sarebbe andata a finire più tardi o forse avevano sottoscritto un patto di non aggressione. Ora i gatti vengono trattati a croccantini e golosi bocconcini e…non sanno più che i topi sono di gran lunga migliori. Anche per loro i tempi sono cambiati…
Il 3 Ottobre 1943 era iniziato come tutti gli altri giorni: la seconda guerra mondiale continuava tristemente e tragicamente e molti giovani carifani erano al fronte, i contadini anziani andavano, come sempre di buon mattino, in campagna. Si preparava il terreno per la semina e si sistemavano tini e botti per l’ormai imminente vendemmia.
Di vino nel territorio del nostro Comune se ne produceva veramente molto, prima che la fillossera, un insetto degli Afididi originario dell’America Settentrionale, distruggesse i nostri vigneti.
A Carife c’erano molte cantine e molti vendevano direttamente il vino che producevano.
A determinare il prezzo del vino, fissato annualmente con deliberazione del Consiglio comunale, non era la varietà delle uve (che non erano molte), ma il sito e l’esposizione dei vigneti: più alto era quello del vino rosso ricavato da uve coltivate “a Levante”. Non si faceva invece alcuna differenza di prezzo per il vino bianco, da qualunque sito provenissero le uve, e costava sempre meno del rosso.
Era molto apprezzato nelle cantine, dove molti Carifani bevevano e spesso si ubriacavano, un vino rosso molto scuro e carico, tanto che era giudicato buono il vino che, messo in bocca e spruzzato contro le pareti, lasciava il segno su di esse.
Molti erano i proverbi legati al vino, che non mancava mai quando si lavorava e si mangiava nei campi o quando ci si sedeva a tavola tornando a casa la sera: Quando si entrava nella casa di un amico, di un conoscente o anche di un estraneo un bicchiere di vino era la prima cosa che veniva offerta.
Si diceva ad esempio “Lu vin’ ‘bbuon’ s’ venn’ senza r’ la frasca” per significare che, se il vino è buono, non ha bisogno di essere reclamizzato. La “frasca” era un ramo con foglie verdi, solitamente di quercia o di castagno, esposto sulla facciata di una casa in cui era possibile bere o comprare del vino.
Per gli uomini che frequentavano le cantine, e troppo spesso si ubriacavano, fu coniato un altro proverbio: “Uom’n’ r’ cantina, cient’ a carrin’ e si saie chiaità t’ n’accatt’ pur’ rui’cient” (Uomini di cantina, cento a Carlino, e se sai contrattare te ne compri anche duecento). Il proverbio stava ad indicare lo scarso valore attribuito ai frequentatori abituali delle cantine: ne potevi comprare addirittura cento per un Carlino, una moneta di poco valore.
Abbiamo detto in precedenza che una delle numerose tornate elettorali amministrative di quel periodo si tenne il giorno 17 Ottobre 1921.
Vediamo gli adempimenti che il nuovo Consiglio dovette fare nella sua prima seduta utile, quella del 28 Ottobre dello stesso mese:
“L’anno millenovecentoventi il giorno ventotto del mese di Ottobre in Carife e nella Sala delle Adunanze del Consiglio Comunale, convocato con appositi avvisi in iscritto il Consiglio Comunale, a norma di legge, il medesimo in seduta pubblica, nelle persone dei Signori:

  1. Gallicchio Angelo Raffaele
  2. Salvatore Dott. Paolo
  3. Caruso Raffaele
  4. Caruso Giuseppe
  5. Clemente Nicola
  6. Schirillo Giuseppe
  7. Forgione Antonio
  8. Salvatore Emanuele
  9. Lodise Domenico
  10. Micciolo Rocco Vincenzo
  11. Carsillo Gianfilippo
  12. Clemente Vito
  13. Ciriello Rocco
  14. Mirra Michele
  15. De Cicco Giuseppe

Assiste alla tornata il Segretario Comunale Grande Clemente.
Riconosciuto che il numero dei Consiglieri intervenuti è legale, il predetto Sig. Gallicchio Angelo Raffaele, Sindaco uscente rieletto Consigliere, li invita a deliberare sul seguente

OGGETTO: Insediamento dei Consiglieri Comunali – Elezione 17 Ottobre 1921 – Condizione degli eletti per la prova di saper leggere e scrivere.

Il Presidente riferisce che per l’art 26 della vigente legge Comunale e Provinciale, testo unico 4 Febbraio 1915, n. 148, questa Giunta Municipale, nel ratificare l’avvenuta elezione ha invitati i Consiglieri eletti il 17 corrente a dare la prova di alfabetismo; che tutti hanno dimostrato di saper leggere e scrivere, mediante certificati rilasciati dal Sindaco ed altri documenti esibiti e precisamente:

  1. Gallicchio Angelo Raffaele e De Cicco Giuseppe, di covrire attualmente la carica di Consiglieri Comunali presso questa Civica Amministrazione;
  2. Caruso Raffaele, Carsillo Gianfilippo e Ciriello Rocco oltre di essere iscritti nella lista per qualità (proscioglimento, il 1° ha ricoverto il grado di caporal maggiore, gli altri quella di Sergente maggiore nel Regio Esercito);
  3. Salvatore Paolo, Medico Chirurgo, attuale Conciliatore. Caruso Giuseppe agronomo. Clemente Nicola già studente ginnasiale. Schirillo Giuseppe proscioglimento. Forgione Antonio farmacista ed attuale Vice Pretore Comunale. Salvatore Emanuele proscioglimento. Mirra Michele di Vito proscioglimento: furono iscritti tutti e sette originariamente per qualità, in base ai cennati titoli, nella lista amministrativa di questo Comune;
  4. Lodise Domenico, Micciolo Rocco Vincenzo e Clemente Vito, oltre il certificato del Sindaco, di saper leggere e scrivere, hanno presentate prove grafiche, mercè domande autenticate dal Notaio Santoro Pasquale fu Antonio, residente in Sant’Arcangelo Trimonte.

 Il Consiglio intesa l’esposizione del Sig. Presidente, presi in esame i documenti innanzi cennati; considerato che i nuovi eletti, niuno escluso, in dipendenza delle elezioni generali amministrative del 17 corrente, hanno dimostrato esaurientemente di sape leggere e scrivere, in conformità degli articoli 26 e 90 della vigente legge Com.le, ad unanimità delibera:

  1. Dichiararsi eleggibili alla carica di Consiglieri presso questa Civica Amministrazione tutti gli eletti suaccennati, in dipendenza delle elezioni generali amministrative, che hanno avuto luogo il 17 dello spirante mese , chiamati con voto plebiscitario dalla fiducia degli elettori;
  2. Immettersi nella carica i 15 Consiglieri nuovi eletti, ed intervenuti nell’odierna seduta.

La seduta continua sul seguente OGGETTO: Nomina del Sindaco.
Presiede la seduta l’Avv. Contardi Michele, Assessore anziano in funzioni. Il Sig. Presidente a seguito della costituzione di questo Consiglio Comunale con i nuovi eletti nell’ultima Assemblea del 17 corrente invita l’adunanza a procedere alla nomina del nuovo Sindaco. Consiglieri presenti 15 – Votanti 15 – Maggioranza assoluta 8. Procedutosi allo spoglio dei voti coll’assistenza degli scrutatori Salvatore, De Cicco, Mirra si è ottenuto il seguente risultato:
Caruso Giuseppe di Rocco voti n. 15.
Il Sig. Presidente in vista di tale risultato proclama eletto Sindaco di questo Comune il Sig. Caruso Giuseppe di Rocco, perito agronomo.
La seduta continua sul seguente OGGETTO: Nomina dei componenti della Giunta Municipale.
Presiede la seduta Gallicchio Angelo Raffaele – Sindaco uscente, rieletto Consigliere. Il Presidente, in virtù degli articoli 134 della vigente legge Com.le e Prov.le e 54 del Regolamento relativo ed a seguito delle elezioni generali amministrative del 17 spirante mese, invita l’adunanza a procedere, mercè bollettini scritti e con due distinte votazioni, alla nomina degli assessori effettivi e supplenti, nell’intelligenza che ogni Consigliere scriverà due nomi ed assessore anziano sarà colui che avrà riportato il maggior numero di voti fra gli eletti, e, nel caso di parità l’anziano di età. Si procede prima alla votazione dei membri effettivi. Consiglieri presenti 15 – Votanti 15 – Maggioranza assoluta 8. Eseguitosi lo spoglio dei voti, coll’assistenza degli scrutatori Salvatore, De Cicco e Mirra, si è ottenuto il seguente risultato:
Salvatore Dott. Paolo fu Raffaele – Voti 15
Forgione Antonio fu Francesco – Voti 14
Il Sig. Presidente proclama l’esito della votazione, dichiarando eletti Assessori effettivi Salvatore Paolo e Forgione Antonio, facendo notare che l’anziano è il Sig. Salvatore per maggiori voti riportati.
Indi si procede alla nomina dei supplenti. Consiglieri presenti 15 – Votanti 15 – Maggioranza assoluta 8.
Effettuatosi lo spoglio dei voti, mercè l’assistenza dei medesimi scrutatori, il risultato è stato il seguente:
Clemente Nicola fu Giuseppe – Voti n. 15
Schirillo Giuseppe fu Aniceto – Voti n. 15
Nel proclamare l’esito di tale votazione il Sig. Presidente dichiara eletti Assessori supplenti i Sigg. Clemente Nicola e Schirillo Giuseppe.
Previa lettura e conferma i verbali soprascritti vengono firmati.

LA BELLA FIRMA DEL SEGRETARIO CLEMENTE GRANDE

LA BELLA FIRMA DEL SEGRETARIO CLEMENTE GRANDE

Come abbiamo potuto vedere dal verbale della deliberazione il Sindaco Giuseppe Caruso e la Giunta Comunale vengono eletti all’unanimità da maggioranza ed opposizione, ed è l’unica volta in cui ciò accade.
Credo sia opportuno riportare uno dei momenti dell’attività amministrativa del Comune, che vide protagonista il nostro Perito Agronomo Don Giuseppe Caruso, che a Piano d’Occhio possedeva una grande “starza” o “starsa” (così a Carife si chiamava una grande vigna, che dava sempre dell’ottimo vino).
Contro la voce del vino mosto relativa all’anno 1925 avevano prodotto reclamo diversi cittadini. Riteniamo opportuno riportare l’ampia, dettagliata ed appassionata discussione che avvenne in Consiglio Comunale il 7 Dicembre 1925. La deliberazione fu pubblicata senza reclami Domenica 24 Gennaio 1926 ed aveva come oggetto Controdeduzioni al reclamo avanzato da alcuni cittadini contro la voce del vino mosto 1925.
“Su di che apertasi la discussione, il Presidente riferisce che avverso l’atto consigliare (sic!) del 7 Dicembre ultimo che fissava il prezzo del vino nuovo mosto raccolto nel 1925 fu prodotto reclamo a firma di parecchi cittadini, lamentandosi che il prezzo in parola era esagerato, secondo le loro affermazioni e ne chiedevano la riduzione per mezzo della superiore autorità. Tale reclamo fu rimesso a questo Comune dall’Ill.mo Signor Sotto Prefetto con lettera del (spazio lasciato in bianco, n.d.r.) per le opportune risposte. Ciò premesso lo stesso Presidente riassume sinteticamente i precedenti e nell’invitare il Consiglio a deliberare sull’oggetto suesposto, esprime il suo avviso perché sia mantenuto il prezzo fissato con la precedente deliberazione in base agli stessi criteri allora adottati dallo stesso Consiglio. A questo punto chiede la parola il Consigliere Caruso, e riferisce: Propongo che il prezzo del vino mosto del raccolto 1925 sia confermato così come fu stabilito nell’altra nostra seduta consiliare per le ragioni che spiego:

  1. Perché il ricorso a firma di vari cittadini spedito al Signor Sotto Prefetto è infondato ed inoltre è stato fatto da compratori di vino e da essi firmato con altri individui che son bevoni, ai quali farebbe comodo di trovare nella vendita del vino a minuto il basso prezzo del vino e così soddisfare a buon mercato. Essi però s’illudono perché non tengono presente che nell’anno scorso pur essendo stabilita la mercuriale comunale del vino a £ 10, 11 e 12 il barile (misura locale), fu venduto dai vinai a £ 2 ed anche a 2,50 il litro;
  2. Perché hanno detto che i Consiglieri che stabilirono con la deliberazione 7 Dicembre il prezzo del vino erano venditori di questo genere, ma questa loro affermazione non è esatta, perché dei consiglieri deliberanti e che ne furono appena 8 sei di essi erano indifferenti e due che pigliano il vino dagli stessi loro coloni. Questi due avrebbero dovuto desiderare se avessero voluto fare il proprio interesse un prezzo mite, invece furono essi stessi, ispirandosi a giusti criteri, che fecero la proposta di prezzo ritenuta dai reclamanti esorbitante, e fu accolto all’unanimità.;
  3. Perché la voce dei contrastati prezzi risponde alla corrente del mercato ed è l’esposizione (espressione?) della volontà di tutta la popolazione. Il vino mosto comprato dal tino fu pagato ai seguenti prezzi: a De Angelis Antonio £ 47 per ogni barile di litri 36,00, Festina Giuseppe a £ 45, a Cerullo Rocco a £ 45, a Santoro Nicola £ 45, a Salvatore Vincenzo fu Raffaele a £ 47, a Schirillo Eugenia a £ 42, a Tedeschi Alessandro a £ 42, a Zizza Michele a £ 44, 45, 46, e 47. Ciò non basta i rivenditori di vino a minuto hanno praticato e praticano tuttora il prezzo di £ 1,30 il litro pel vino bianco e di 1,80 a £ 2,00 pel vino rosso, guadagnando netto per ogni barile dalle 15 alle 20 lire.

Concludendo chieggo (sic!) che il ricorso di cui è cenno sia dichiarato infondato e sia confermato il prezzo stabilito in precedenza con la consiliare 7 Dicembre u.s..
Posta a partito la proposta del Consigliere Caruso, questa per alzata e seduta resta approvata che il prezzo del vino mosto a produzione 1925 e per ogni barile di litri 36 è il seguente:

Vino rosso a Levante£ 40.00

Vino rosso a Mezzogiorno£ 38.00

Vino rosso a Ponente£ 36.00

Vino bianco in generale£ 26.00

Si confermò quindi il prezzo già fissato con la proposta del Consigliere Di Ianni il 7 Dicembre 1925.
La deliberazione fu approvata dal Sotto Prefetto del Circondario di Ariano di Puglia il 5 Marzo 1926.
Anche Don Giuseppe Caruso (chiamato Don Peppe dai Carifani), perito agrario o agronomo come allora si diceva, si era recato di buon’ora, come faceva spesso, a Piano d’Occhio, dove lo attendevano Rocco Felice Tedeschi (“Lescia”) e la moglie Angiola Barrasso, suoi “Parzonali”, che coltivavano a mezzadria la sua vasta proprietà, unitamente ai numerosi figli, ed abitavano in una delle sue case.
Nelle macchie di sua proprietà, situate sempre nei dintorni di Piano d’Occhio, lavoravano carbonai e mulattieri venuti da fuori, che abitavano in capanne costruite con tronchi e frasche e preparavano il “catuozzo”. Il catuozzo o carbonaia veniva realizzato su uno spiazzo detto aia (a Carife “aria”). ”La legna si disponeva in cerchio attorno all’aia, quattro pali centrali infissi nel terreno costituivano il camino che permetteva poi di governare la carbonaia. Attorno al camino si disponeva in verticale tutta la legna fino a formare una grande cupola. I prati circostanti fornivano le zolle di terra con ciuffi d’erba, per ricoprire la parte bassa del catuozzo detta piede; la parte alta invece si copriva con uno strato di foglie secche e poi con terra. A questo punto la carbonaia era pronta per essere accesa e raggiungere in 24 ore circa, la piena attività. Il colore del fumo che usciva da appositi sfiatatoi che il carbonaio praticava nei fianchi del catuozzo, permetteva di controllare il livello di cottura e valutare se aumentare o diminuire il fuoco, fino alla completa combustione della legna. Il lavoro del carbonaio continuava ininterrottamente dall’alba al tramonto e anche di notte, unico momento di svago era la sera davanti alla capanna dove si giocava a morra e si beveva qualche bicchiere di vino. Con la diminuzione della richiesta di carbone… i catuozzi hanno smesso di fumare”.
Oggi in Contrada Oliveto/Alivita rimangono solo alcune piazzole con chiazze di terra bruciata e qualche residuo di carbone, a documentare la presenza di un “catuozzo”.

Il “catuozzo” ormai pronto per essere ricoperto di terra

Il “catuozzo” ormai pronto per essere ricoperto di terra

 

Un “catuozzo” fumante (immagine dal web- proloco di Cervinara)

Un “catuozzo” fumante (immagine dal web- proloco di Cervinara)

In alcune deliberazioni Consiliari troviamo la testimonianza che Don Giuseppe Caruso vendeva il suo carbone anche al Comune di Carife, che lo utilizzava per riscaldare le scuole e gli altri locali comunali.
Giuseppe Caruso era nato in Largo Sant’Anna il 22 Settembre 1892 da Rocco e da Filomena Schirillo; l’11 Aprile 1915 aveva sposato Anna Rosaria (“Annina”) Iannacchini/Iannacchino; a Carife era molto stimato e rispettato. Ebbe vari figli:

  • Il primo, ROCCO, chiamato come il nonno, nacque il 14 Gennaio 1916; il 28 Dicembre 1939 sposò a Pompei Clementina Rossi; fu cancellato dall’Anagrafe in data 23 Dicembre 1952 a seguito del trasferimento ad Avellino; ebbe due figli: un maschio ed una femmina;
  • Il 21 Maggio 1917 nacque LEONARDO, che però morì in tenera età il 6 Marzo 1918;
  • Il 1° Marzo 1920 nacque LEONARDO ANGELO MICHELE, che morì a 5 anni il 5 Luglio 1925; 
  • L’8 Giugno 1923 nacque FILOMENA EUGENIA, che morì giovanissima (aveva 23 anni) il 29 Agosto 1946. “Mena”, come la chiamavano tutti affettuosamente, era una gran bella ragazza ed era fidanzata con il Maestro Francesco Paolo Giangrieco; gli anziani ricordano ancora con grande commozione lo spettacolo offerto da questa giovane coppia, assai affiatata ed innamorata fin da quando i due erano ancora ragazzini e sognavano un futuro insieme. Alcuni avevano le lacrime agli occhi quando raccontavano lo strazio e la disperazione di Don Paolo, che seguiva il feretro della giovane fidanzata volata al cielo nel fiore degli anni, stroncata forse da una leucemia fulminante. In occasione della festa di San Rocco, che si celebrava in quei giorni, era stata fatta venire anche una famosa banda musicale da Gioia del Colle, una cittadina pugliese. La banda accompagnò al cimitero il feretro della sfortunatissima Filomena suonando la marcia funebre tra la commozione generale: fu uno degli episodi più strazianti vissuti a Carife, e non solo a quei tempi. 
  • Il 26 Maggio 1926 nacque GIOVANNA MARIA CARMELA FRANCESCHINA, che il 21 Aprile 1947 sposò Giuseppe De Simone di Guardia dei Lombardi, dove si trasferì con conseguente cancellazione dall’Anagrafe di Carife, avvenuta in data 1 Giugno 1947;
  • Il 3 Dicembre 1931 nacque MARIA CARMELA, che il 21 Marzo 1948 sposò proprio il Maestro Francesco Paolo Giangrieco, che sarebbe stato ripetutamente Sindaco di Carife, Consigliere Provinciale (per ben 5 legislature) e Consigliere Comunale; Paolo aveva visto forse negli occhi, nei lineamenti e nel fisico di colei che sarebbe stata la compagna della sua vita, quelli di “Mena”, volata al cielo prematuramente. Paolo Giangrieco (tutti lo chiamavano “Don Paolo”) avrebbe scritto dal 1948 in poi molti capitoli della nostra storia comunale e Provinciale; fu anche candidato per l’elezione alla Camera dei Deputati.

Francesco Paolo Giangrieco è deceduto il 13 Marzo 2012.

L’estesa proprietà di Don Giuseppe Caruso, situata nella Contrada Piano d’Occhio, ai confini con il territorio del Comune di Guardia dei Lombardi, che proprio in quella località si estende stranamente anche al di qua del Fiume Ufita, era condotto a “mezzadria” dai coniugi ROCCO FELICE TEDESCHI e ANGIOLA/ANGIOLINA BARRASSO (soprannominata “Lescia”).
ROCCO FELICE TEDESCHI era figlio di ALESSANDRO, nato il 30 Gennaio 1872 da Alfonso e da Paola Lungarella; Alessandro aveva sposato Vitantonia Carsillo il 6 Maggio 1897 e morì il 21 Novembre 1955; dalla coppia erano nati diversi figli:

  • ALFONSO, nato il 28 Settembre 1898 sposò Maria Consiglia Schirillo;
  • GAETANO, nato il 24 Maggio 1900 sposò Giovanna Giangrieco; fu a lungo fattore/amministratore dei De Biasi;
  • ROCCO FELICE, nato il 13 Novembre 1904 sposò Angiola/Angiolina Barrasso;
  • ORSOLA, nata il 2 Marzo 1902 sposò Nicola Salvatore;
  • FILOMENA, nata il 28 Dicembre 1909 sposò Giovanni Caruso;
  • GIUSEPPE, nato il 27 Aprile 1912 sposò Filomena Salvatore;
  • VITO, nato il 4 Febbraio 1915 sposò Marianna Branca.

BARRASSO ANGIOLA o ANGIOLINA BARRASSO era nata il 21 Ottobre 1903 da Vito Felice (soprannominato “Lescia”) e da Angela Rosa Capilato; il 3 Giugno 1926, come abbiamo detto, sposò ROCCO FELICE TEDESCHI.
Una sorella di Angiola, Maria Raffaela, nata il 12 Aprile 1905 sposò il compianto ed indimenticato Elziario Izzo, persona onesta, laboriosa, allegra ed intelligente. Un’altra sorella, ancora emigrò in Argentina.
Rocco Felice, essendo ancora minorenne per la legge di quei tempi, si sposò con il “consenso del padre Alessandro mediante atto pubblico per Notar Santoro di Bonito del 6 Maggio 1926 legalizzato dalla Pretura di Grottaminarda il 10 Maggio 1926”. Vitantonia Carsillo, madre dello sposo invece “non prestò il suo consenso perché discorde alla celebrazione del presente matrimonio”. I testimoni presenti all’atto, ricevuto dal Sindaco Angelo Raffaele Gallicchio subentrato a Giuseppe Caruso, furono Rocco Melchionna di anni 22 e Giovanni Barrasso di anni 49. Il Notaio era Don Pasquale Santoro, fratello di Don Giocondo e padre, tra gli altri, del compianto Dott. Antonio Santoro, deceduto a Roma qualche mese fa.
Da Rocco Felice Tedeschi e da Angiolina Barrasso nacquero diversi figli:

VITANTONIA (fu chiamata come la nonna) nacque in Via Bersaglio il 27 Marzo 1927, quando il padre aveva 23 anni; l’atto fu ricevuto da Giuseppe Di Ianni, sub podestà; Il 22 Maggio 1949 sposò Giuseppe Giordano di Guardia dei Lombardi, dove si trasferì: fu cancellata dall’Anagrafe del Comune di Carife l’8 Ottobre 1949;

ALESSANDRO (si chiamava come il nonno paterno) nacque il giorno 11 Novembre 1928; il 23 Dicembre 1945 sposò Angiolina Bianco e in data 2 Gennaio 1968 fu cancellato dall’Anagrafe di Carife per emigrazione a Pomezia;
MICHELE nacque l’8 Maggio 1931; il 13 Febbraio 1957 sposò a Pomezia Arcangiolina Zitola; a margine dell’atto di nascita abbiamo trovato la seguente annotazione, trascritta in data 23 Luglio 2012: “Michele Tedeschi è morto in Pomezia ( e la morte) presumibilmente è da far risalire a circa dieci giorni fa dalla data del 17.11.2008. Atto di morte del Comune di Pomezia anno 2008 parte I^ serie = n. 67”. Questa annotazione ha generato in me una grande tristezza…

  • Il 14 Maggio 1933 nacque DORA, che il 29 Giugno 1952 sposò Giovanni Lavanga; l’atto fu ricevuto dal Podestà Pasquale De Biasi; in data 1° Aprile 1959 fu cancellata dall’Anagrafe per essere emigrata a Pomezia; Dora è morta ad Ardea il 26 Giugno 2012;
  • Il 16 Maggio 1935 nacque ANGELA ROSA GERARDINA, che il 28 Ottobre 1956 sposò Giuseppantonio D’Avino; fu cancellata dall’Anagrafe il 27 Luglio 1962 per emigrazione a Roma;
  • Il 19 Dicembre 1939 nacque ASSUNTA, che fu cancellata dall’Anagrafe il 7 Dicembre 1959 per emigrazione a Pomezia; il giorno prima aveva sposato a Pomezia Pasquale Zitola;
  • Il 28 Maggio 1941 nacque RAFFAELA e testimone presente all’atto fu Amato Loffa di Pasquale di anni 32; il 29 Dicembre 1959 fu cancellata dall’Anagrafe per emigrazione a Pomezia, dove il 6 Settembre 1964 sposò Ferdinando Lintozzi;
  • Il 3 Ottobre 1943 Angiolina era di nuovo incinta di sei mesi, ma la bambina o il bambino che portava in grembo, come vedremo più avanti sarebbe volato in cielo con la mamma…

I due “Parzonali” (a Carife “li parzunual’”) di Don Peppe possedevano anche una coppia di buoi (“nu paricch’ r’ vuov’) che Rocco usava spesso per arare la terra e per fare altri lavori con il carro che essi trainavano; talora andava ad arare anche “a giornata” presso altri contadini e faceva quindi anche “lu ualano’”; ovviamente in casa non mancavano maiali, polli, pecore e capre.
Poco al di sotto di loro (ma già in territorio di Guardia dei Lombardi) abitavano i coniugi LORENZO LOFFA (soprannominato “Maumett’”), nato l’8 Ottobre 1885 da Agostino e da Maria Giuseppa Mirabella, e la moglie Teresa Lungarella, da lui sposata il 5 Settembre 1909. Con loro naturalmente abitavano anche i figli Concetta, Elvira, Filomena, Raffaela ed Agostino. Lorenzo, rimasto vedovo in data 28 Luglio 1960, si sposò di nuovo con Marianna Lodise il 31 Agosto 1963. Una sorella di Lorenzo, Raffaela Loffa, nata il 12 Aprile 1873, sposò il 15 Marzo 1894 Vito Pagano, del quale rimase vedova il 29 Novembre 1949; Raffaela morì il 16 Settembre 1958. Agostino Loffa, padre di Lorenzo, era nato il 7 Novembre 1839 da Saverio di anni 40 e da Costantina Lodise di anni 36 ed aveva sposato Maria Giuseppa Mirabella il 17 Settembre 1871; Agostino morì il 2 Marzo 1920.

Raffaela Loffa con i suoi caratteristici orecchini

Raffaela Loffa con i suoi caratteristici orecchini

 

Da Lorenzo Loffa e Teresa Lungarella nacquero:

  • CONCETTA, nata il 16 Agosto 1913, il 1° Marzo 1936 sposò Pietro Antonio Strazzella di Vallata;
  • RAFFAELA, nata il 21 Gennaio 1918, morì il 5 Ottobre 1919;
  • Un’altra RAFFAELA, nata il 6 Luglio 1925, il 25 Aprile 1948 sposò Rocco Giordano di Guardia dei Lombardi;
  • AGOSTINO l’11 Maggio 1921; il 13 Aprile 1944 sposò Adelina Fabiano, della quale rimase vedovo 16 Marzo 2007; fu persona versatile ed ingegnosa ed esercitò vari mestieri: fu contadino, fornaciaio, vigile urbano a Flumeri, boscaiolo e bidello; Agostino è deceduto il 7 Agosto 2010;
  • FILOMENA il 4 Novembre 1928; il 21 Gennaio 1951 sposò Egidio Colicchio e vive ed abita a Carife;
  • ELVIRA l’8 Giugno 1934; si sposò lo stesso giorno (21 Gennaio 1951) con Vito Colicchio, fratello di Egidio; Elvira è deceduta il 7 Ottobre 2010, seguita a breve tempo dal marito.
Lorenzo Loffa e Teresina Lungarella in Via Sant’Anna

Lorenzo Loffa e Teresina Lungarella in Via Sant’Anna

Poco più giù abitava anche Amato Loffa con la sua famiglia.
Rocco Felice Tedeschi e la moglie Angiolina erano abituati a ricevere le frequenti visite del padrone delle loro terre, che essi coltivavano a mezzadria: fin dal giorno prima si erano procurata presso un mulino di Guardia dei Lombardi la farina per fare la pasta fatta in casa (“li triidd”, che a Don Peppe piacevano tanto). Alessandro, un bel ragazzone di 15 anni, si era recato di buon’ora al mulino ad acqua di Guardia. Nel sugo avevano fatto cuocere quella gallina “cecata”, che ogni sera le figlie dovevano “accompagnare”, guidandola con una “mazza”, fin dentro il pollaio (“lu casiedd”), per evitare che, passando la notte fuori, finisse in bocca ad una volpe (ce n’erano tante nei dintorni!). Vitantonia, la primogenita, era diventata una splendida ragazzona: era ormai sedicenne ed era già corteggiata da diversi ragazzi; aiutava spesso la mamma ad accudire i fratellini più piccoli. Si era data un gran da fare con la sorella Dora, che aveva dieci anni, per rincorrere ed acciuffare alla fine quella gallina cieca che correva per l’aia e a volte finiva tra le vacche, sotto la “loggia”. Tutte trafelate e rosse in viso portarono la loro preda alla mamma, che nel frattempo aveva già messo l’acqua sul fuoco ed attizzava, in attesa che bollisse. Angiolina prese la gallina, la strinse tra le gambe, prese il coltello che il marito Rocco aveva affilato sulla mola, bagnandola di tanto in tanto con l’acqua e…zac, diede un taglio netto alla gola del pennuto animale, mentre la figlia Vitantonia raccoglieva in un piatto il sangue che sgorgava a fiotti: sarebbe servito per fare “lu sang’tiedd”. Dora intanto era fuggita via perché si dispiaceva: amava molto gli animali e se c’era qualcuno che provava dispiacere l’agonia della gallina si sarebbe prolungata, così almeno diceva mamma Angiolina.
Il sangue raccolto nel piatto sarebbe stato poi calato nell’acqua bollente, si sarebbe rappreso e, insieme al durello (“lu sciuscier”), il fegato ed altre frattaglie sarebbe stato fritto nella padella (la “fr’ssola”) insieme ai peperoni secchi, che quell’anno erano anche un po’ piccanti (“fuort”). Il piatto piaceva molto a Rocco, le figlie invece facevano un po’ le schifiltose.
La gallina intanto era morta e non si muoveva più, e poiché l’acqua bolliva, Angiolina la prese per i piedi e la calò più volte nell’acqua, strappando ogni tanto dei ciuffetti di penne, per vedere se era pronta per essere spennata. In un batter d’occhio, con grande maestria, la spennò, la passò poi sulla fiamma per bruciacchiare le penne piccoline ed il pelame che rivestiva ancora la gallina; la sezionò e vide che era anche grassa ed aveva una bella “pigna” d’uova. Sorridente la mostrò alle ragazze, dicendo che uno lo avrebbe fatto il giorno dopo ed era un po’ dispiaciuta. Prelevò il fegato, tolse immediatamente e con gesto sicuro il sacchetto del fiele (“lu fel’”), strappò le interiora con il durello avvolto nel grasso, lo separò e lo mise da parte. Dora che nel frattempo era rientrata si tappò il naso, dicendo che sentiva una forte puzza. La mamma uscì davanti alla porta e chiamò il grosso pastore maremmano (“Lu can’ uardiul”) e glielo diede: Barone, così si chiamava quel grosso cane bianco, divorò il malloppo in un sol boccone, leccandosi i baffi. Angiolina spaccò poi il durello (“lu sciuscier”), tolse una pellicina con tutto il contenuto di grano e granone e lavò accuratamente tutto; fece a pezzi la gallina e la mise prima a friggere con una generosa fetta di lardo e con delle fettine di cipolla in una grande padella. Nel frattempo aveva aperto un paio di bottiglie di salsa e le aveva svuotate nel capace “tiano” di creta, che aveva comprato proprio quell’anno da un “pignataro”, alla fiera della Croce del 3 Maggio a Carife. Quando dopo mezzogiorno tornò Rocco, già si sentiva a distanza il profumo del sugo, che borbottava lentamente nella fornacella poggiato su di un trespolo di ferro (“lu trep’n’”), costruito da un fabbro di Carife: la gallina era vecchia ed occorreva molto tempo per la cottura…ma gallina vecchia fa buon brodo.
Angiolina, sebbene avesse superato da poco la quarantina ed avesse già messo al mondo una bella nidiata di figli (“na morra r’ figl”) era una donna splendida ed emanava il fascino tipico della donna ormai matura; molti uomini la guardavano con ammirazione e forse ci facevano anche qualche pensierino. Le donne anziane che l’hanno conosciuta e frequentata dicono che era una donna laboriosa, pulita ed ordinata ed i suoi numerosi figli non erano mai disordinati o sporchi. Angiolina era dolce ed autoritaria nello stesso tempo e rispettava molto il marito, sempre in giro per i campi a lavorare, e si faceva rispettare anche da Don Peppe, il “padrone”.
Intanto fin dalla tarda mattinata di quel giorno molti nuvoloni torreggianti già si sollevavano all’orizzonte, tra Carmasciano, la Pietra del Pesco ed il cocuzzolo su cui sorgeva Frigento. Assumevano forme talora grottesche, talora stravaganti ed a volte potevi vederci, con un po’ di fantasia, anche animali o essere mostruosi: le ragazzine con il naso all’insù si divertivano un mondo…

“Guarda, un coniglio!”…Gridava felice Dora a Gerardina…

“Guarda, un coniglio!”…Gridava felice Dora a Gerardina…

Don Peppe aveva fatto un bel giro nella sua “starsa” per verificare personalmente il grado di maturazione dell’uva ed era tornato al “casino” (la sua casa di campagna) molto soddisfatto e contento: l’uva era dolce ed ormai quasi matura e le vespe non la divoravano come gli altri anni. “La tina” e le botti, riempite d’acqua da tempo, si erano ormai strette (“’mmufate”) e non perdevano più: tutto era pronto per l’imminente vendemmia.
Angiolina, tra la curiosità delle figlie, aveva impastato la farina ed aveva “cavato” ad arte “li triidd” e li aveva lasciati sulla tavola (“lu tumpuagn”), coprendoli con una tovaglia (“lu stiavucch”); aveva per tempo appeso “lu callar” sul fuoco, appendendolo alla catena, e teneva in caldo il “tiano” con il sugo. Quando, sotto mezzogiorno, rientrarono a casa anche il marito e Don Peppe, Angiolina calò li triidd’ nell’acqua che bolliva già da tempo. Aveva nel frattempo, con l’aiuto delle bambine, preparato ed apparecchiato la tavola (la “buffetta”): tutto era ormai pronto e si sedettero gioiosamente ed affamati intorno alla “buffetta”.ed incominciarono a mangiare; sotto la tavola c’era anche il gatto, che spesso se ne andava in giro tutta la giornata e rientrava in casa solo se era cattivo tempo.
Rocco era seduto di fronte alla finestra che guardava verso Carmasciano, aveva creduto di vedere un lampo, ma poi ne ebbe la conferma: dopo qualche secondo avvertì anche distintamente il rumore sordo e lontano di un tuono; riferì agli altri e continuò a mangiare il pezzo di gallina che la moglie gli aveva messo nel piatto, nel quale nel frattempo aveva fatto anche “la scarpetta”, con una bella fetta di pane che la moglie, anche in tempi di guerra, cuoceva spesso nel forno che si trovava proprio al lato della casa. Altrettanto facevano nel frattempo anche gli altri, compreso don Peppe, che dimostrava in questo modo di aver molto gradito il pranzo, che terminò con la frutta: Don Peppe aveva portato dalla starsa una diecina o forse più di pigne di uva ”moscatella” ben matura, che piacque moltissimo specialmente alle bambine; alcuni acini, schiacciati e privati dei semi, furono dati anche a Raffaela, una bellissima bambina di due anni che ancora allattava e che in casa tutti chiamavano affettuosamente “Faluccia”. A tavola era stata svuotata anche una bella “carrafa” di ottimo vino rosso.
Si alzarono sazi e contenti dalla tavola e si sedettero sulla lunga pietra che era collocata appositamente per questa funzione, proprio a lato della porta. Il cielo, da Guardia, passando per Carmasciano e fin oltre Frigento era diventato livido e nero come la pece e di tanto in tanto si vedevano i lampi, seguiti a distanza da tuoni che si avvertivano sempre più distintamente e vicini…

Il cielo era diventato livido e nero come la pece dietro Carmasciano…

Il cielo era diventato livido e nero come la pece dietro Carmasciano…

Il fenomeno non era passato inosservato nemmeno agli occhi della commare Teresina Lungarella, moglie di Lorenzo Loffa e a quelli delle figlie Elvira e Filomena: anche loro guardavano preoccupate e con una certa apprensione quella nuvolaglia scura che non prometteva niente di buono ed avevano paura dei tuoni; anche le galline che prima razzolavano sull’aia si erano raccolte istintivamente in prossimità della baracca, pronte a rientrare nel pollaio qualora incominciasse a piovere.
Data la vicinanza delle due case si sentivano distintamente i gridolini delle figlie di Angiolina Barrasso, mentre si rincorrevano intorno alla loggia, sotto la quale erano ricoverate le due mucche, ben legate alla mangiatoia.
Ora i lampi si erano fatti più frequenti e i tuoni si avvertivano già abbastanza forti, tanto che Teresina Lungarella, quando vide un lampo, seguito quasi subito da un tuono più forte e fragoroso degli altri, guardando verso le figlie Filomena ed Elvira, gridò preoccupata:”Santa Barbara mia, proteggici tu! Oggi non è cosa buona…”.
Aveva sentito tante volte questa invocazione dalla mamma e dalla nonna, che le avevano detto anche che la bestemmia (“la iastema”) più brutta da mandare ad una persona è dire “Te pozz’ accir’ ‘na tronola!”. “Lè, nun sia mai…manc’a lu pesc’ nemich’ mio!” ripeteva spesso. Filomena urlò: “Mamma mia! Andiamocene tutti da commar’Angiolina, si avimma murì, murimm’ almen’ tutt’anit”. Mamma Teresa acconsentì, mentre folate di vento impetuose squassavano le cime dei grandi alberi di quercia che circondavano il “casino” di Don Peppe, poco più a monte; Macchia di Panno, Carmasciano, Santa Croce già non si vedevano più, e setendevi l’orecchio potevi sentire il rumore e lo scroscio (“lu frusc’”) della pioggia che cadeva e che ormai aveva raggiunto anche la macchia di Montepidocchio (Munt’ P’rucchie”), che si trovava proprio di fronte a loro.
Un lampo improvviso, accompagnato contemporaneamente da un fragore incredibile, sconvolse e spaventò le tre donne: fu subito evidente che il fulmine si era abbattuto solo a qualche metro da loro. Dalla casa dei vicini arrivavano strilli e lamenti: Teresa e le figlie accelerarono il passo ed in un attimo furono davanti alla casa di Commare Angiolina. Lo spettacolo che si offrì ai loro occhi fu davvero drammatico e straziante: il fulmine si era abbattuto proprio sulla casa dei compari e i ragazzi urlavano di dolore per le ustioni riportate, ma erano vivi. Sulla soglia della porta Don Peppe era seduto sulla sedia ed era stato fulminato nell’atto in cui si accingeva ad accendersi la sigaretta; a terra, accanto al padrone, giaceva Angiolina, anch’essa uccisa dal fulmine mentre stava allattando al seno la figlia Raffaela, che era rimasta miracolosamente illesa. Rocco si trovò scaraventato a qualche metro di distanza tra le pecore e, appena si riprese, capì immediatamente quello che era successo. In preda alla disperazione prese tra le sue forti braccia la moglie incinta e la adagiò dolcemente sul letto che era lì vicino, mettendola con la testa ai piedi. Teresa e le sue due figlie Filomena ed Elvira si davano intanto un gran da fare per aiutare i ragazzini che respiravano a mala pena in un’aria che puzzava di ozono, prodotto dal fulmine. Corsero ai barili in cui era custodita l’acqua per gli usi domestici e usando un bacile davano da bere ai poveri malcapitati, che comunque già si stavano riprendendo. Elvira, commossa, ricorda che la pancia della povera Angiolina si muoveva. (Il suo racconto può essere ascoltato nella sezione audioteca).
Filomena corse subito a Carife ad avvertire i parenti del povero Don Peppe; i Melchionna che abitavano poco più sopra, erano intanto accorsi pure loro, richiamati dalle urla raccapriccianti che arrivavano fino alla loro casa. Si diedero subito da fare e costruirono una sorta di portantina, simile nella struttura a quella che veniva utilizzata solitamente per portare via dalla stalla il letame: con essa più tardi il corpo esanime di Don Peppe sarebbe stato portato in paese, tra la commozione e lo strazio dei parenti e di tutta la popolazione di Carife. Il tutto fu fatto nel massimo silenzio e senza luci in quanto c’era il coprifuoco. La povera Angiolina invece fu portata in paese il giorno dopo.
Il tragico episodio, che molti a Carife ricordano ancora, colpì e sconvolse tutta la popolazione. Mia madre Clotilde, che allora aveva 19 anni appena compiuti, aveva sposato mio padre Michele proprio all’inizio di quell’anno e spesso ci raccontava di quel tragico avvenimento; ogni volta che scoppiava un temporale ci faceva allontanare dalla porta di casa, perché era convinta che fulmine potesse colpire più facilmente chi era sulla soglia.
Qualche mese dopo quel tragico evento, con una nidiata di bambini in tenera età da allevare e da tirare su, parenti ed amici consigliarono a Rocco di cercarsi un’altra donna, che si prendesse cura di lui e dei suoi figli. Rocco la trovò quasi subito e tutti lo avevano aiutato:
Il 5 Febbraio 1944, quattro mesi dopo la tragedia, Rocco Felice Tedeschi, a Guardia dei Lombardi sposò Antonia (“’Ntuniella”) Macchia, figlia di Giuseppe. Almeno per una volta a Carife, ma anche a Guardia, i soliti “moralisti” e “bacchettoni” non ebbero nulla da dire: la tragedia di quei bambini senza mamma aveva tacitato ogni tentativo di critica. Dalla coppia nacquero:

  • ANGELO (gli fu dato il nome della mamma deceduta tragicamente?), nacque il 26 Gennaio 1945; il 13 Gennaio 1963 sposò Teresa Toto; il 3 Agosto 1964 fu cancellato per emigrazione a Roma. Quando nacque Angelo il padre e la madre avevano entrambi 41 anni;
  • GIUSEPPE, nacque il 13 Dicembre 1948; il 10 Aprile 1967 fu cancellato dall’Anagrafe di Carife per essere emigrato insieme al resto della famiglia a Pomezia.

Per Rocco Felice Tedeschi si preparava un’altra tragedia immane: mentre Giuseppe faceva il servizio militare di leva a Fano il mezzo su cui viaggiava l’11.11.1968 si ribaltò e lui fu scaraventato in mezzo alla strada, proprio mentre dall’altra parte sopraggiungeva un’altra macchina: il povero ragazzo fu travolto e morì sul colpo: non aveva ancora compiuto vent’anni… Anche questo tragico evento è scolpito indelebilmente nella mente e nel cuore di tutti i Carifani. Il 2 Febbraio 1971 Rocco Felice si trasferì ad Ardea.

La lapide che nel cimitero vecchio ricorda il tragico incidente

La lapide che nel cimitero vecchio ricorda il tragico incidente

Antonia Macchia era morta l’anno prima e non visse quella spaventosa tragedia.
Ora nel cimitero vecchio di Carife una mano pietosa ha voluto che mamma e figlio, in quel luogo pieno di macerie, si ritrovassero fianco a fianco nella stessa edicola funeraria, che è solo un simbolo, in quanto le loro ossa stanno altrove, forse sotto nella grande fossa comune: riposino in pace!

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Giuseppe Tedeschi

Giuseppe Tedeschi

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