Articolo di Giovanna Gangemi

VALLI DELL’UFITA e DEL MISCANO (Dott.ssa Giovanna Gangemi)

Estratto dall’ Enciclopedia dell’ Arte Antica II Supplemento (1997)

Le Valli dell’Ufita e del Miscano, rispettivamente a Nord-Est di Benevento e a Est di Eclano, fin da remota età hanno costituito essenziali vie di comunicazione tra la Campania e la Puglia.
Dalle sorgenti fino alla confluenza nell’Ufita, il corso del Miscano presenta un dislivello di c.a 800 m; la sua valle è stata una delle più importanti vie di traffico fra la conca beneventana e il Foggiano per tutta l’antichità.
Un ruolo non meno importante ha rivestito la valle dell’Ufita, configurantesi come una fascia pianeggiante vicina alla Puglia e alla Basilicata. L’insediamento si distribuisce fittamente soprattutto nel territorio gravitante sul versante destro dell’Ufita lungo il quale doveva correre una variante valliva della Via Appia da Eclano verso Aquilonia (Lacedonia), tratto vallivo che andò perdendo la sua importanza in età altomedievale.
Il Neolitico Antico nelle sue fasi più avanzate vede la penetrazione dalla Puglia di agricoltori e allevatori sedentari (facies Guadone) ed è attestato alla Starza di Ariano Irpino (dove sono presenti anche fasi successive della preistoria e protostoria), a Casalbore (loc. S. Maria dei Bossi) e a Carife (loc. Addolorata e Fiumara).
Mentre sono scarse le testimonianze del Neolitico Medio (loc. S. Marco, a SE di Ariano Irpino), un’interessante testimonianza del Tardo Neolitico è rappresentata dall’insediamento di Aia di Cappitella a Carife, caratterizzato dalla presenza di strutture di combustione con frammenti ceramici (facies Diana-Bellavista), industria litica in selce e in ossidiana. La presenza di ossidiana in varie località lungo entrambe le valli documenta la funzione di tramite e diffusione culturale della zona.
Per le fasi più antiche dell’Età dei Metalli si segnala la necropoli in località S. Maria dei Bossi a Casalbore (tomba 86 datata al CI4: 4800 +/- 90) formata da tumuli in pietrame con paralleli nella cultura di Rinaldone. Più recenti sono un insediamento (facies Laterza) in località S. Nicola di Casalbore e una necropoli a Castel Baronia località Isca del Pero (tombe a fossa con inumati rannicchiati). Il Bronzo Medio è attestato a Casalbore (loc. Macchia Porcara), a Carife e in località Pioppeto di Buonalbergo, con elementi riferibili al Protoappenninico B. All’Appenninico maturo rimandano ceramiche da Casalbore, Carife, S. Sossio Baronia, Frigento.
A parte la Starza di Ariano Irpino, mancano ancora dati ascrivibili al Bronzo Recente e Finale, così come molto scarsa risulta la documentazione dalla prima Età del Ferro all’Orientalizzante Recente, costituita in prevalenza da materiali sporadici e da reperti di superficie: si tratta per lo più di oggetti metallici e ceramici che attestano contatti con il versante tirrenico e l’area interna della Campania, nell’VIII-VII sec., e anche con l’area adriatica nel corso del VII sec. a.C.
Meglio documentata è l’età propriamente sannitica che sulla base delle testimonianze archeologiche può suddividersi almeno in tre fasi. La prima, dagli inizî del VI alla prima metà del V sec. a.C., è contraddistinta dalla presenza in un’ampia area a NO di Casalbore compresa una parte del territorio a NE di Buonalbergo, di tombe a tumulo con circoli di pietrame destinati a sepolture plurime. Tali tombe segnano l’emergere di una élite e si contrappongono a coeve sepolture a fossa, in area marginale e con oggetti privi di particolare rilievo. Già nei tumuli più antichi sono invece documentate fibule d’argento del tipo a navicella con arco piegato a triangolo, oggetti d’importazione (coppe ioniche tipo B2) e altri beni di prestigio come vasellame bronzeo (piatti e bacini etruschi) nonché oggetti ornamentali in bronzo e in ambra, attestanti contatti con l’area adriatica e forse picena.
La restante parte dei corredi, che caratterizza le coeve sepolture a fossa semplice, trova ampi confronti con il repertorio ceramico delle necropoli coeve di Aufidena e di Castel Baronia-Carife. Accanto al vasellame ancora in impasto, appaiono, già prima della metà del VI sec. a.C., esemplari in argilla figulina, spesso caratterizzati da una decorazione subgeometrica, talora bicroma, a fasce parallele cui a volte si infrappongono motivi lineari a tremulo e a meandri o fitomorfi, su vasi la cui forma e funzione rimanda chiaramente all’ideologia del banchetto.
Nelle tombe maschili sopravvivono ancora le fibule e sono di norma le armi di offesa e i rasoi, prima in bronzo e poi in ferro.
Tipicamente sannitico, con valore prettamente rituale, è il kàntharos a base piatta, spalla nettamente differenziata e alte anse a gomito, presente già nei corredi più antichi in impasto, successivamente in argilla figulina e quindi in bucchero allorché questa tecnica, sotto l’influsso di maestranze campane immigrate nelle regioni interne per motivi concorrenziali determinati dall’affermarsi crescente della vernice nera, cominciò a essere imitata localmente a Castel Baronia-Carife, soprattutto per la produzione di oinochòai e di kỳlikes del tipo a «occhioni».
In un momento maturo di questa prima fase cominciano ad apparire il cratere «calcidese», imitato anche localmente con esemplari per lo più a decorazione bicroma, e, ancora rare, importazioni di cup-skỳphoi attici a vernice nera dovute probabilmente all’irradiamento commerciale di Capua cui si deve anche la diffusione di kỳlikes a vernice nera, imitanti il tipo attico a «occhioni», e degli skỳphoi tipo Nola.
Tali fenomeni di acculturazione in senso greco sono da porre anche in rapporto con il mercenariato, in quanto presenze di mercenari sanniti sono da supporre già durante la guerra tra Etruschi e Cuma nel 524 a.C. (Dion. Hal., VII, 2). A fenomeni di acculturazione è da rapportare anche la precoce introduzione di modelli costruttivi attestati a Casalbore dalla presenza, già alla fine del VI sec. a.C., di abitazioni con muri in pietrame unito con argilla e tetto in tegole con coppi curvi e di fornaci figuline a doppia concamerazione.
La fase successiva occupa la seconda metà del V sec. a.C., durante la quale a Casalbore e soprattutto a Castel Baronia e a Carife perdurano l’inumazione in tombe a fossa semplice e la produzione di ceramica bicroma, gradualmente sostituita da quella a vernice nera che annovera tra le forme ceramiche della fase precedente ancora il kàntharos, affiancato fino alla sua totale scomparsa, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, dallo skỳphos di tipo attico, che spesso veniva rotto per motivi rituali dopo la libagione.
A partire dal 430 a.C. è maggiormente documentata la presenza di forme attiche (kỳlikes, boccali monoansati e coppette concavo-convesse a vernice nera) in parte di produzione campana, comunque sotto l’influsso di vasai di formazione attica, e in parte imitate da officine locali.
Influssi greci, probabilmente sempre mediati attraverso il mercenariato, sono attestati a Castel Baronia da una tomba a incinerazione non a caso con due cinturoni nel corredo, uno appartenente al defunto ed elemento distintivo di individuo socialmente preminente, l’altro, sottratto al nemico, simbolo del bottino di guerra.
Sono attestati contatti con l’area adriatica specie per quanto riguarda oggetti di ornamento (catenelle) e vasi miniaturistici in bronzo.
Un aspetto rilevante per i rapporti e le eventuali implicazioni con aree più a SE è la sopravvivenza in alcune tombe di Carife di fogge ceramiche e di elementi plastico- decorativi, come i kàntharoi su alto piede e le protomi di lupo su boccali per lo più a vernice nera, attestati nella cultura di Cairano già dal VII sec. a.C.
Alcune tombe scavate a Carife presentano corredi straordinariamente ricchi con bronzi di importazione etrusca: candelabri (tra cui uno coronato da una statuetta di Sileno che sacrifica un caprone) e bacini decorati con treccia incisa lungo l’orlo che inducono a ipotizzare, come pure per una padella con ansa a kriophòros di provenienza greca, forme di tesaurizzazione o bottini di guerra; di particolare interesse è pure un cratere figurato attribuibile al Pittore di Dolone.
In una terza fase, verso il 400 a.C., si assiste a un cambiamento nella tipologia delle tombe (uso di tegole o di blocchi), e nella composizione del corredo che si riduce in media a due vasi, come mostrano le sepolture dagli inizî del IV fino alla prima metà del III sec. a.C. soprattutto in località dell’agro di Carife. Elemento pressoché costante è un vaso collocato tra le tibie dell’inumato, in genere una patera o un bacino in bronzo, talora con ansa mobile, oppure un piatto a vernice nera; continua a essere attestato il rituale della frantumazione di uno skỳphos. La restante parte del corredo è costituita, nelle tombe maschili, da cinturoni, rasoi e armi, mentre in quelle femminili da fibule in ferro, in bronzo e in argento e talora da oggetti di particolare rilievo come pendagli di ambra e di argento. Nonostante l’esiguità dei corredi, quindi, la percentuale degli oggetti metallici, relativamente alta rispetto a quelli fittili, attesta che il prestigio sociale del defunto non si traduce nella ricchezza numerica bensì nella qualità del corredo. Non a caso anche nelle tombe a cassa o a camera in blocchi di travertino o a pseudocamera in tegole, il criterio di distinzione sociale non trova più un corrispettivo nella quantità degli oggetti, ma nella particolare cura della struttura sepolcrale (dove in un caso sono state rinvenute tracce di pittura) e nell’eccezionalità degli oggetti di ornamento come le fibule d’argento – in un caso da parata – talora con elementi di ambra e di corallo, un disco di avorio con decorazione incisa e una lamina d’argento lavorata a sbalzo.
Tra il IV sec. inoltrato e gli inizî del III sec. a.C. la presenza di strigili in alcune tombe, unitamente al rito della cremazione, è chiara testimonianza di un’ulteriore acculturazione in senso greco con l’accoglimento dell’ideale efebico. Sono peraltro da riferire a questa fase i santuarî individuati lungo la valle del Miscano, in località S. Martino a Buonalbergo e a Macchia Porcara di Casalbore. In quest’ultima località sono state esplorate coeve aree di abitato, per lo più fattorie sparse, la cui durata è documentata fino agli inizî del III sec. a.C.
A seguito delle guerre sannitiche, la rarefazione degli insediamenti e delle necropoli evidenzia in tutta l’area un periodo di recessione da porre in relazione con una diminuzione della popolazione dedotta presumibilmente in gran parte in schiavitù. Tuttavia, come pure in altri siti del Sannio Pentro, non cessò di esistere il santuario di Macchia Porcara a Casalbore, ubicato in prossimità di una sorgente forse nel luogo di un’area sacra precedente risalente all’Età del Bronzo Medio già con muri di terrazzamento, come attestano strutture e frammenti ceramici riferibili almeno al IV sec. a.C. Il santuario, forse in virtù della sua posizione ai margini di una delle più importanti direttrici di traffico in età preromana, il tratture Pescasseroli-Candela, finì con l’assumere un’importanza tale da essere, intorno alla metà del III sec. a.C., ristrutturato in senso monumentale.
Il tempio, orientato da S verso N e impostato direttamente sulle fondazioni senza podio né risega, rileva nel suo impianto indubbi influssi medio-italici con una cella pressoché quadrata tra due ali aperte sul davanti i cui muri esterni, prolungandosi fino alla fronte, terminavano con ante, tra cui erano sei colonne; altre due colonne in asse con i muri della cella avevano la funzione di sostenere il tetto della pars antica cui si accedeva mediante una gradinata interrotta ai lati da due fontane. All’interno della cella il pavimento in cocciopesto era ornato con motivi a losanga in tessere bianche, mentre le pareti rivestite in stucco erano decorate a riquadri di colori diversi e terminavano alla sommità con una cornice a dentelli allungati. Il piazzale antistante, in cui si sono rinvenuti i resti di un’ara poggiante su una piattaforma, era fiancheggiato a E da una stoà e da altri ambienti.
L’esplorazione archeologica ha portato alla luce frammenti di figurine fittili, ex voto riproducenti particolari anatomici, tra cui un utero, balsamari fusiformi e una testa di Minerva con elmo corinzio. La distruzione del santuario, rimasto incompiuto, sembra sia avvenuta nel corso della guerra annibalica (Pol., II, 90, 7, 8; Liv., XXII, 13, 1).
In rapporto con le devastazioni prodotte da tale guerra è da porre anche il ripostiglio monetale, oggi disperso, rinvenuto nel 1895 in agro di Carife con monete di argento e di bronzo di Napoli, Fistelia, Arpi, Salapia, Aquilonia, Brindisi, Taranto, Eraclea, Turi, Siracusa e Roma.
Nel corso del tardo ellenismo si assiste a una progressiva ripresa con la creazione di un insediamento a carattere urbano, rinvenuto a Fioccaglia di Flumeri di cui, in assenza di dati epigrafici, non conosciamo né il nome né stato giuridico.
L’abitato, sorto su un vasto pianoro a dominio della confluenza della Fiumarella nell’Ufita, ebbe una funzione nodale nell’ambito della rete viaria antica in Irpinia, posto come era all’incrocio di importanti vie.
Immediatamente a Sud doveva correre infatti la variante valliva della Via Appia che da Eclano proseguiva forse lungo il versante destro dell’Ufita; da essa, proprio nei pressi di Fioccaglia, si dipartivano verso Νord una via consolare, di cui sono noti due cippi miliari, con il nome di un M. Aemilius console (CIL, IX, 6073), databile al II sec. a.C., e verso Nord-Est, lungo la valle della Fiumarella, la Via ad Herdoniam che divenne poi la Via Aurelia Aeclanensis.
L’impianto di Fioccaglia risponde a un preciso disegno urbanistico, con assi ortogonali, ampie strade basolate e un complesso sistema fognario. Sono documentate abitazioni anche di lusso con atrio di tipo tuscanico e peristilio, decorazioni in stucco, mosaici e terrecotte architettoniche che, unitamente ai dati forniti dal materiale ceramico, attestano la breve durata del sito dagli ultimi decenni del II agli inizî del I sec. a.C.
La fondazione dell’abitato di Fioccaglia si inserisce in quella svolta di incremento radicale, nell’ambito della romanizzazione dell’Irpinia, determinatasi per più versi nel corso delle distribuzioni agrarie di età graccana, di cui chiari indizî sono i termini rinvenuti, nelle immediate adiacenze territoriali, a Rocca S. Felice e a Frigento. Allo stesso ambito cronologico sono da rapportare i materiali più antichi rinvenuti a Forum Novum e ad Aequum Tuticum, centri meglio rappresentati archeologicamente nel corso dell’età imperiale allorché il loro territorio fu interessato dal tracciato della Via Traiana. Anche lungo il resto della valle dell’Ufita le suddivisioni agrarie di età graccana sembrano essere il presupposto di impianti produttivi rurali disposti a intervalli pressoché regolari in agro di Castel Baronia, Carife, Guardia dei Lombardi, Sturno e Frigento.
Tale periodo di relativa floridezza sembra concludersi con gli avvenimenti legati alla fase finale della guerra sociale, allorché, a seguito delle devastazioni avvenute in Irpinia, si registra un definitivo abbandono.
A tali vicende non sembra essere sopravvissuto un santuario tardo-ellenistico in località Fiumara di Carife, dove gli scavi hanno messo in luce un ambiente pavimentato in cocciopesto, ceramica campana B e balsamari fusiformi.
Solo in età tardo-repubblicana e imperiale si nota in tutto il territorio una reviviscenza che coincide con il sorgere di complessi edilizi anche di notevole estensione, tra cui particolare rilievo assume quello individuato in località Piano dell’Occhio a Guardia dei Lombardi, da identificare forse (Mommsen) come la «Trivici villa» menzionata da Orazio (Sat., I, 5).
In questo momento le due aree dovevano far parte di una suddivisione territoriale diversa. La valle del Miscano, come documenta un’iscrizione (CIL, IX, 1433) murata in una masseria alle pendici di Casalbore, appartenne probabilmente alla tribù Galería dalla fine della guerra sociale fino al 41 a.C., quando in seguito alla deduzione coloniale dei veterani di Filippi, di cui fu incaricato Lucio Munazio Planco (CIL, X, 6087) fu annessa, come sembrerebbero comprovare alcune epigrafi rinvenute nella vicina Aequum Tuticum (CIL, IX, 1418, 1419), al territorio di Benevento che era ascritto alla tribù Stellatina.
La valle dell’Ufita invece, sulla base di un’iscrizione recentemente rinvenuta a Carife in località Aia di Cappitella, almeno nella prima età imperiale doveva rientrare nel territorio di Eclano e quindi far parte della tribù Cornelia.
La frequentazione di entrambe le valli è documentata fino al tardo impero e oltre, come testimoniano il perdurare di alcuni impianti insediativi e la sistemazione della Via Herculia con direttrice NO-SE per lo più lungo un precedente tracciato corrispondente al tratturo Pescasseroli-Candela.
In località S. Maria dei Bossi a Casalbore, presso il tracciato della Via Traiana, sono stati rinvenuti i resti di due mausolei a camera risalenti al III sec. d.C., di cui uno fu trasformato in edificio sacro in età altomedioevale.
È stata inoltre esplorata una vasta necropoli, databile al VI-VII sec. d.C., costituita da tombe a cassa e a cappuccina in muratura e in tegole, talora con sovrastrutture monumentali, i cui corredi attestano il perdurare di formule e modelli precedenti assunti in età bizantino-barbarica (orecchini a cestello in bronzo e fibule da cintura con protomi zoomorfe).

BIBLIOGRAFIA:

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(G. Gangemi)