Il Feudo di Carife e i Marchesi Capobianco

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, avvenuta nel 476 d. C., con la deposizione dell’ultimo imperatore romano Romolo Augustolo per opera del generale Odoacre, le nostre terre furono invase dai Barbari e finirono in successione nelle mani prima dei Goti, poi dei Bizantini e infine dei Longobardi, che accorparono il nostro territorio al Ducato di Benevento.
La deposizione dell’ultimo imperatore romano, che per ironia della sorte portava i nomi del mitico e leggendario fondatore di Roma ed il diminutivo di Augusto (Augustolo = piccolo Augusto), che ne era stato il primo grande imperatore, segna convenzionalmente la fine dell’Impero Romano d’Occidente e l’inizio del Medioevo.
Ai Longobardi seguirono poi i Normanni, che qui costruirono, come altrove, i loro castelli fino ad arrivare a Federico II di Svevia, considerato da tutti un grande sovrano, fondatore tra l’altro dell’Università di Napoli.
Federico II era dotato di una personalità poliedrica e affascinante che, fin dalla sua epoca, ha polarizzato l’attenzione degli storici e del popolo, producendo anche una lunga serie di miti e leggende popolari, nel bene e nel male. Uomo straordinariamente colto ed energico, stabilì in Sicilia e nell’Italia meridionale una struttura politica molto somigliante a un moderno regno, governato centralmente e con un’amministrazione veramente efficiente.
Comunque le fonti storiche che parlano di questo periodo e di questa terra, in particolare di Carife e della Baronia, sono piuttosto scarne.
Si sa che nel corso della storia abbiamo avuto spesso a che fare con fame e carestie, pestilenze e terremoti, che ne hanno falcidiato la popolazione. Tra i terremoti più funesti ricordiamo quello dell’8 settembre 1694 (6.8), quello del 29 dicembre 1732 (6.6) e quello, più recente, del 23 novembre 1980 (6.9). Tra le epidemie di peste la più disastrosa fu sicuramente quella del 1656, che dimezzò la popolazione della Campania.
Fondamentale ed indispensabile per la storia del feudo di Carife è la grande opera in quattro Volumi, pubblicata tra il 1859 ed il 1879 da Erasmo Ricca, “Guardia del Corpo a cavallo di S. M. (D. G.)” (Dei Gratia?), ed intitolata “ISTORIA DE’ FEUDI DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DI QUA DAL FARO”, con sottotitolo “Intorno alle successioni legali ne’ medesimi dal XV al XIX secolo”. I feudi sono elencati in ordine alfabetico. (Vedi Appendice).
Per Carife, compresa nel I Volume che fu pubblicato nel 1859, si parte dal I° gennaio 1507, anno in cui “Re Ferdinando il Cattolico, con privilegio spedito dal Castelnuovo di Napoli…donò molte città e terre, tra le quali Carife, al suo Gran Capitano Consalvo Fernandez de Corduba, ed agli eredi e successori di lui, in ricompensa de’ suoi grandi servigi”. (Pag. 169).
In calce all’articolo relativo ad ogni feudo il Cavaliere Erasmo Ricca riporta dei comodi e completi specchietti riassuntivi delle successioni legali stesse, nel feudo di Carife e negli altri feudi di qua dal faro, dal 1507 al 1788.
Dal 1122, anno in cui Carife era governata da Riccardo Guarino, al 1646, anno in cui il feudo di Carife fu acquistato da Donna Laura de Ciaccio, si susseguirono vari “padroni”, che diedero in successione, vendettero o comprarono le nostre terre.
Elencarli tutti sarebbe troppo lungo e noioso. Ci limitiamo a dire che in 524 anni sono documentati con certezza circa 34 passaggi di mano, non sempre pacifici, perché alcuni atti di vendita furono talora impugnati dai creditori.
Ultimo in ordine di tempo a possedere il feudo di Carife, prima della vendita a Donna Laura Ciaccio, era stato Carlo Vecchione, che a sua volta nel 1634 lo aveva comprato, per 20.000 ducati, da Cesare Miroballo, Principe di Castellaneta e Marchese di Deliceto.
Carlo Vecchione, cui doveva succedere il fratello Tommaso, preferì invece vendere il suo feudo di Carife, al prezzo di ducati 17.400, a Laura Ciaccio o de Ciaccio Contestabile di Cosenza, vedova del Dottor Giovanni Francesco Capobianco, discendente di una delle più antiche e nobili famiglie di Benevento, ma era rimasta vedova.
Donna Laura de Ciaccio o Contestabile, spesso chiamata negli atti “Magnifica”, come del resto anche altre nobildonne appartenenti al suo stesso ceppo, era discendente di una famiglia, che nel 1409, a causa dell’inimicizia con i della Marra, da Barletta si era trasferita a Cosenza.
In questa città, grazie anche ad una forte amicizia con il re Angioino Ladislao I° di Napoli, i Ciaccio conquistarono un posto di assoluto rilievo, tanto che Pietro fu Contestabile e Sindaco del Sedile dei Nobili di Cosenza. I Ciaccio abitarono in un bel palazzo rinascimentale nel centro storico di Cosenza e furono annoverati tra i nobili della città. Il palazzo del Contestabile Ciaccio fu poi Sedile dei Nobili e in seguito Palazzo di Giustizia, sino alla metà del XVI secolo.
Quella del Contestabile era un’alta carica attribuita a chi, nel periodo svevo e in quello angioino, veniva inviato dalle monarchie dell’Italia meridionale nelle varie provincie del regno, o a chi aveva il comando di parti dell’esercito, o a chi era preposto al governo, specialmente militare, di singole città o castelli.
Donna Laura de Ciaccio, sicuramente discendente di Pietro, compare già in alcuni atti, o “desideri”, nel corso del 1540.
La nobildonna cosentina sposò il celeberrimo giurista ed avvocato dei patrizi beneventani Giovanni Francesco Capobianco, esperto di cose feudali ed autore del famosissimo “Tractatus de iure et officio baronum erga vasallos, burgenses…” edito, per la prima volta, nel 1603. Il “Trattato sul diritto e dovere dei baroni verso i vassalli, burgensi… fu ripubblicato in seguito varie volte a Napoli.
La famiglia dei marchesi Capobianco si trasferì ed abitò a Carife e portò al seguito alcune persone di fiducia appartenenti agli Schirillo, ai Melina, ai Saura, ai Flora, ecc…
Cerchiamo di conoscere più da vicino questa famiglia che ha attraversato e segnato, con varie vicissitudini, oltre 300 anni della storia del nostro paese.
Gli studiosi sostengono che la famiglia dei Capobianco (in latino Capiblancus) “risale al tempo delle crociate ed è originaria di Castelpoto”, in provincia di Benevento.
Nel corso del XVI secolo fu Lorenzo a trasferire a Benevento la residenza della famiglia.
Dall’opera che fu dedicata a Papa Clemente XIV, intitolata “Memorie Istoriche della Pontifizia Città di Benevento dal secolo VIII al secolo XVIII” e pubblicata a Roma nel 1769 da Stefano Borgia, Segretario della Sagra Congregazione delle Indulgenze e già Governatore della medesima, apprendiamo che nel 1492, (anno della scoperta dell’America) la situazione beneventana non era certo delle più tranquille, perché anche questa città era afflitta dalla congiura dei Baroni, che volevano ridimensionare il potere del re Ferdinando d’Aragona e degli ordini privilegiati e favorire il ritorno degli Angiò. In questa loro lotta i Baroni avevano ottenuto anche l’appoggio di Papa Innocenzo VIII.
Leggiamo un’altra notizia che riguarda da vicino proprio i nostri Capobianco:
Nel 1482, morta Maddalena Caracciolo, divenne signore di Terraloggia (Pago Veiano) il di lei figlio Tirello Mansella, che tanta parte ebbe nelle lotte civili che si scatenarono a Benevento, divisa in due opposte fazioni capeggiate dalle famiglie dei Mansella e dei Capobianco.
“Tirello Mansella, il quale per la Signoria di Terraroggia (Terraloggia), e d’altri feudi nel contorno, teneva grandissima autorità tra i nobili Beneventani, entrò nel 1492 a mano armata in città, e vi uccise Bartolomeo Capobianco (figlio di Lorenzo) suo nemico, patrizio di somma reputazione, né di ciò pago gli fece porre a sacco la casa”.
Il Mansella non incontrò alcuna resistenza in una città impaurita e ne divenne padrone incontrastato.
Il Pontefice Alessandro VI (Papa Borgia), padre tra l’altro dei famosi Cesare e Lucrezia, successe proprio quell’anno ad Innocenzo VIII, fece ricorso “al Re Ferdinando, il quale prontamente prestandosi alle premure del Santo Padre fece intendere nel 1493 al Mansella, ed ai suoi seguaci di non mettere più piede in Benevento. Non per questo i Capobianco dimenticarono il grave oltraggio sofferto per la violenta morte di Bartolomeo, mentre vegliando sempre alla vendetta, non si rimasero dal farla aspramente in persona di Angelo fratello di Tirello ucciso da Antonio Capobianco nel 1497”.
Non sappiamo con certezza se Bartolomeo ed Antonio fossero fratelli. Sappiamo di sicuro però che Lorenzo Capobianco ebbe altri due figli: Scipione (forse anche lui ucciso) e Pietro Paolo, che fu Vescovo di Sant’Agata dei Goti. Pietro Paolo era stato “cubicularius”, addetto di camera, di Papa Innocenzo VIII.
Dalla nota n. 1 della pag. 425 dell’opera del Borgia, apprendiamo che Lorenzo Capobianco, una delle figure più eminenti della famiglia, “fu adoperato dalla patria in più occasioni, e specialmente nell’inviarlo nel 1486, in qualità di Oratore al Pontefice Innocenzo VIII”.
Giovanni Francesco Capobianco, marito di Laura Ciaccio, nacque a Benevento con ogni probabilità nel corso del 1560 e morì nel 1633. Fu un celeberrimum causarum patronus, ossia avvocato.
Il trattato da lui scritto, e del quale abbiamo parlato in precedenza, come già detto, venne poi integrato e ripubblicato varie volte nel corso del Seicento e del Settecento. Nel 1666 fu ripubblicato, con aggiunte ed integrazioni, dal figlio Antonio, del quale parleremo più avanti e del quale già ha parlato Michele.
L’opera aveva suscitato non poche discussioni e polemiche, tanto che nel febbraio del 1628, in una riunione del Collaterale, che era il supremo consiglio del regno di Napoli e che era stato creato nel 1516 da Ferdinando il Cattolico, l’avvocato fiscale Giulio Mastrillo richiamò l’attenzione dei Reggenti sul fatto che nell’opera si affermava che nel Regno si sarebbe osservata la bolla di Gregorio XIV, il che a suo parere non era vero, e quindi per essere Capobianco Ministro de sua maestà se doveva castigare molto bene et prohibirsele  il libro et essendo stato visto il libro, fu concluso che se raccogliessero tutti i libri et non se vendono”. Fu deciso di convocare il giurista e di fargli una “gagliarda reprensione”.
Tra Regno di Napoli e Santa Inquisizione si era venuto a creare nel tempo un clima particolare e talora erano sorte nette contrapposizioni.
Alcuni studiosi e giuristi avevano trovato nell’opera del Capobianco affermazioni favorevoli a forme diverse di intervento della giurisdizione regia nei confronti dei chierici, e ne avevano deciso la proibizione (che per altro non fu recepita da Roma), il che indusse il giurista a mitigare e a modificare quanto asserito nelle edizioni successive: Il Capobianco aveva insistito sinteticamente sul diritto e la possibilità di ricorrere alle hortatoriae (richiami/esortazioni) nei confronti di ecclesiastici disubbidienti, ricorrendo anche al sequestro dei beni temporali da essi posseduti.
Dal matrimonio di Laura Ciaccio con Giovanni Francesco Capobianco nacquero 4 figli maschi: Antonio, il primogenito, e come tale destinato poi ad ereditare il feudo, Giovanni Battista, Stefano e infine Paolo.
Abbiamo già detto che Laura Ciaccio, quando il marito Giovanni Francesco Capobianco era ormai morto da 13 anni, aveva comprato il feudo di Carife dal barone Carlo Vecchione.
Il regio assenso, a firma del Duca d’Arcos vicerè del Regno di Napoli, è datato 18 agosto 1646 e l’atto fu stipulato a Napoli dal notaio Pietro de Canto.
Circa tre anni dopo, continua Erasmo Ricca, “Con l’istrumento poscia rogato in Carife a’ 29 di decembre del 1649 dal notaio Giovan Battista de Ippolito della terra di Vallata la suddetta Laura donò il feudo di cui è parola al figliuolo primogenito di lei Antonio Capobianco, che esercitava allora l’ufficio di Avvocato Fiscale della Gran Corte della Vicaria”.
Antonio Capobianco, definito illustris fidelis nobis dilectus da Carlo II, ottenne il titolo di marchese di Carife. Scrive il Ricca: “Quest’ultimo ed i suoi eredi e successori erano insigniti del titolo di Marchese di Carife dalla munificenza del Re Carlo II di Spagna con un diploma spedito da Madrid il dì 18 giugno del 1667, cui davano l’esecutoria il Vicerè di questo Regno D. Pietrantonio d’Aragona ed il suo collaterale Consiglio a’ 5 di marzo del seguente 1668”.
A questo punto, a pag. 174, l’autore dell’opera che stiamo seguendo per tracciare la storia del feudo di Carife inizia a riportare le belle parole, in latino, che motivarono l’investitura di Antonio Capobianco a Marchese di questo paese.
Per brevità e comodità le riassumiamo: esse “ricordano di quante virtù nelle quali è riposta la vera nobiltà, fosse adorno il menzionato Antonio”.
Naturalmente il Re usa, nel tessere le lodi del suo illustre, fedele e diletto Consigliere, Reggente anche nel Supremo Consiglio dell’Italia, il pluralis maiestatis. Il pluralis maiestatis (plurale di maestà) indica l’uso della prima persona del plurale (anziché del singolare) del verbo e dei corrispondenti aggettivi e pronomi personali e possessivi, cui si ricorre per ottenere particolari effetti. È usato da autorità civili o religiose in veste ufficiale o in contesti istituzionali.
Carlo II magnifica prima di tutto le sue doti e la sua capacità umana e professionale nell’espletare i vari, delicati e gravosi compiti e doveri a lui affidati e portati avanti nei tribunali, nel Consiglio di Castel Capuano e nel Regno della Sicilia Citeriore, oltre che la sua grande e qualificata opera nella trattazione della lunga serie affari di grande importanza e rilevanza che gli venivano affidati, attività che durava ormai da ben 36 anni, con evidente fedeltà ed eccellente spirito di servizio e senso del dovere.
Il Re rende atto poi dell’impegno profuso a suo favore e a favore del Regno da Antonio Capobianco, anche durante i tumulti, che scoppiavano frequentemente nel Regno di Napoli e che erano costati al fedele consigliere del Re molto impegno, grandi pericoli, compreso quello di mettere a rischio la sua vita, sacrifici enormi anche del suo patrimonio personale, con la perdita di svariate migliaia di ducati.
Evidentemente il Re si riferiva anche alla rivolta di cui era stato protagonista Tommaso Aniello di Amalfi, meglio noto come Masaniello (1620 -1647), proprio vent’anni prima: dal 7 al 16 luglio 1647 la popolazione della città era insorta contro la pressione fiscale imposta dal governo vicereale spagnolo.
L’impegno di Antonio Capobianco, noto a tutta la corte e degno di lode generale, era stato costante e qualificato anche nel delicato ed eminente compito di Reggente nel Supremo Consiglio d’Italia, a cui era stato chiamato: era davanti agli occhi di tutti ed era nota la sua devozione, la sua fedeltà, la sua competenza, la sua solerzia e tante mirabili qualità da lui profuse nell’espletamento di tutti i numerosi affari a lui affidati.
In questo modo aveva meritato ampiamente la benevolenza e la considerazione di tutti per la sua opera grata e virtuosa.
Volendo quindi il Re insignire Antonio Capobianco e la sua antica, egregia e nobile famiglia di un titolo illustre ed importante, per sua autorità regia e per decisione maturata anche nel Sacro Consiglio Supremo, per grazia speciale gli conferì il titolo di Marchese della terra di Carife, nella Terra del Principato Ultra del Regno della Sicilia Citeriore e che del titolo si poteva gloriare ed insignire e, dopo di lui i figli e i successori, in perpetuo.
Dalla sentenza n. 147 emessa dalla Commissione feudale il 26 giugno 1810, per dirimere una controversia sorta tra il comune di “Carifi” ed il marchese Capobianco apprendiamo che Antonio, il primo marchese, era anche stato “Regio Consigliere e governatore generale della Regia Dogana di Foggia; ma questo è stato già detto egregiamente da Michele.
La sentenza, per dovere di cronaca, si concluse con l’assoluzione del Comune di Carife.
Antonio Capobianco, il primo Marchese di Carife, “venne a morte il 25 luglio 1672 senza prole alcuna da sua moglie Teresa Vulcano del sedile del Nido” .
Nella tomba dei Contardi, nel nuovo cimitero di Carife, sono conservati, tra gli altri, i resti mortali della Marchesa Donna Lucietta Capobianco; sull’altarino sono state collocate le foto di famiglia, sormontate da un bellissimo stemma in pietra, che reca in bellissima evidenza anche il simbolo francescano delle due mani con stimmate che stringono al petto la Croce.
Tutto questo ovviamente convalida e testimonia la fede e la devozione francescana degli antichi marchesi di Carife, ad incominciare da Laura Ciacci o Ciaccio che dir si voglia.

feudo carife (1)

feudo carife (2)

Nello stemma conservato nella tomba di famiglia dei Contardi, oltre alla data 1661, al simbolo francescano inserito tra i due 6 della data e allo stemma di famiglia, nel contorno si legge, anche se mutila, la scritta D.(OMINUS) ANTONIUS CAPIBLANCUS REGIUS CONS(ILIARIUS).
Nelle due aggiunte laterali sono visibili i simboli della toga e della carriere forense dell’illustre avvocato Marchese Antonio Capobianco.

feudo carife (3)

Stemma araldico dei Marchesi Capobianco di Carife

Abbiamo detto in precedenza che la moglie dell’illustre Marchese Antonio Capobianco proveniva dal Sedile del Nilo. I Sedili (o Seggi o Piazze) erano delle istituzioni amministrative della città di Napoli i cui rappresentanti, detti Eletti, dal XIII al XIX secolo, si riunivano nel convento di San Lorenzo per cercare di raggiungere il bene comune della Città. A cinque di essi avevano diritto di partecipare i nobili, mentre il resto dei cittadini era aggregato nel sesto seggio, quello del popolo. Oltre al sedile del Nido o Nilo, c’erano i sedili detti Capuana, Montagna, Forcella, Porto, Portanova e Popolo.
L’eredità spettò ad un suo nipote, Domenico Capobianco, che era Marchese di Rocca San Felice, e che morì in Benevento il 6 giugno 1684.
Il 24 agosto dello stesso anno 1684 diventò Marchese di Carife Giuseppe, figlio di Domenico.
Dopo la morte di Giuseppe Capobianco a causa del terremoto del 1732 ereditò il titolo il figlio primogenito Saverio, che divenne 4° Marchese di Carife e 3° Marchese di Roccasanfelice.
Alla morte di Saverio Capobianco, avvenuta in Benevento il 27 di giugno 1735, ereditò il feudo ed il titolo il fratello secondogenito Felice, in virtù di due decreti della Gran Corte della Vicaria del 2 aprile del 1735 e 18 aprile del 1736.
Mettiamo ora in risalto un altro aspetto di Laura Ciaccio e per farlo mi sembra oltremodo opportuno, a questo punto, riportare integralmente, dal periodico VICUM pubblicato alla fine del 1994, il testamento che la nobildonna Laura Ciaccio de Ciaccio o Cecci dettò e depositò nelle mani di Frate Alessio Del Vasto del Convento di Carife e Custode del Principato Ultra, decifrato e trascritto da Padre Riccardo Fabiano, gran conoscitore delle “cose carifane”.
Lo trascrivo integralmente, perché, come sostiene Padre Riccardo, “di questa (Laura Ciaccio, n. d. r.) manifesta la nobiltà, il tenero sentimento, la religiosità cristiana e francescana, la fedeltà e la giustizia”. (VICUM, op. cit. pag. 38).
Ecco il testamento:
“Jesus Maria Joseph et Franciscus
Testamento et ultima volontà di me Laura Cecci Capobianco, vedova del quondam Giovanni Francesco Capobianco, scritta per mano del mio Padre spirituale da me specialmente chiamato hoggi 20 Abrile 1659, quale testamento voglio sia valido in ogni tempo, come vi fossero poste tutte le Clausole e sollennità necessarie, così per via di testamento in scritto col sigillo et testamento nuncupativo et questo voglio che li figli miei sotto la mia benedizione habbiano da osservare.
Nel diritto romano, testamento nuncupativo è il testamento orale, fatto di fronte a testimoni con una dichiarazione solenne (nuncupativo) – (dal Vocabolario Treccani).
Primieramente raccomando l’anima a N. S. Gesù Cristo che per li meriti della sua santissima passione habbia d’havere remissione delli miei peccati, et ricevermi in Santa Gloria, col l’intercessione della Beatissima Vergine mia advocata et il mio Angelo Custode et San Michele Arcangelo mio advocato che debbia defendere e giutare nell’ultimo passo della mia morte, così tutta la corte celestiale; voglio che dopo la mia morte sia vestita dell’abito del glorioso S. Francesco et quello solutamente et una pietra a capo senza nulla pompa farmi sepelire nella Chiesa di San Francesco di questa Terra di Carifi.
In primis lascio erede Paulo mio figlio, per essere l’ultimo e povero, della mia dote di docati due mila e cinquecento assignati sopra Alabella et dopo trasportati alla Guardia Lombarda et anche detto Paulo habia da dare la legitima di quella a Stefano et Antonio (Futuro I° Marchese di Carife, n. d. r. ) miei figli, et perché Giovanni Battista mio figlio fece la renuncia Paterna e Materna col tutto ciò voglio che detto Paulo l’habia da dare la legitima, et col darli tutti li mobili quatri a detto Paulo, et ornamenti di casa, et quanto staranno d’entro li miei baugli di biancheria, oro, et argento, et detti miei figli non si habiano lamentare conforme li prego se non l’ho lasciato cosa di più, havendomi così ordinato et raccomandato Giovanni Francesco mio Marito, che avesse lasciato erede detto Paulo perché lui fu aggravato et altri figli l’ha lasciati bene accomodati col fiscali et altri contanti, essendosi fatta opera grande quando si sono accasati e dottorati et detto Paulo assolutamente have avuto due mila docati di fiscali sopra à Castello Grande, lasciati da detto B. A.(bene amato?) di Giovanni Francesco mio Marito, et prego Antonio mio figlio, che l’debia donare la porzione della sua legitima, che così più volte mi ha promesso di farlo, si anco perché io li donai, quando lui si accasò una catena d’oro di docati cento ottanta, che era la mia, et voglio che la prima terza delle mie entrate di fiscale le debia dare per messe, come anco li docati quaranta, che stanno d’entro il mio bauglio si debiano dare per messe per l’anima mia, e così raccomando a tutti li miei figli, che s’abiano da raccordare (ricordare?) della mia anima e particolarmente a Paulo mio figlio et havendolo cresciuto io col darli quattro anni la menna mia et per ultima torno a benedire tutti detti miei figli, quali prego che si vogliano contentare di questa mia disposizione, quale voglio che sia valida in ogni modo migliore ancorché vi mancasse sollennità alcuna attese questa voglio che s’esegua e sia mia ultima volontà.
Quale disposizione io Fra Alessio del Vasto custode et Padre spirituale ut supra ho scritto la suddetta ultima volontà e testamento, e quello l’ho letto in presenza delli sotto scritti testimoni, cioè il D. (Dottore) fisico Scipione de Martinis, Sig.re Francesco Antonio Ciampone, Bernardino Russo, Giuseppe Cipriano, il G.l (Generale?) Cesare Ciampone, Antoniello Dellia, et altri. Carifi li 20 di abrile 1659.
Veniamo ora ad una tragedia che colpì duramente la famiglia del marchese e la popolazione di Carife il 29 dicembre 1732, quando un violentissimo terremoto rase al suolo il paese e causò, secondo notizie attendibili, ben 460 morti e 150 feriti. (Purtroppo è andato smarrito presso la nostra Chiesa Collegiata proprio il Liber mortuorum relativo a quell’anno). Data l’ora fortunatamente molti si salvarono perché erano in campagna per la raccolta delle olive…
Il terremoto rase al suolo anche questa Collegiata ed il Convento sui Fossi, adiacente al palazzo in cui abitava il marchese e la sua famiglia.
Sotto le macerie del palazzo trovarono la morte anche molti esponenti della famiglia del marchese: morì proprio il Marchese, Giuseppe Capobianco, la moglie, due figli e due nipoti. Gli altri figli, Saverio e Felice, si salvarono perché si trovavano a Napoli per motivi di studio.
A ricordo di tale tragedia, come ha già detto Michele, i cittadini promossero, nel 1755, la ricostruzione del monumento della Croce, anch’esso abbattuto dalla violenza del sisma.
Sulla lapide collocata sotto la Croce fu scritto, in latino:
“I cittadini di Carife a spese pubbliche, tramite l’eccellentissimo Pasquale Capobianco, curarono di erigere nello stesso luogo con maggiore devozione il monumento della gloriosa Croce abbattuta dal violentissimo terremoto che il 29 dicembre 1732 quasi svuotò questo paese dei cittadini e a causa delle pietre dello sconquassato palazzo portò commiserevole morte a moltissimi della famiglia marchesale – Anno del signore 1755”.
Ora quella lapide si trova inserita nel Monumento della Croce collocato all’incrocio tra la via che porta al vecchio cimitero e quella consortile che porta in Valle Ufita.
A titolo di curiosità e a documentare i rapporti non sempre pacifici tra Comune e Marchesi, aggiungiamo che nell’anno 1810 il Comune di Carife sostenne una lite giudiziaria presso la Commissione feudale con il Marchese Giovanni Capobianco intorno ad alcune somministrazione di derrate dovute da costui per la costruzione di alcuni molini; intorno ad una foresta posseduta da quel Comune e denominata, secondo “i differenti siti dove si estende, Serralonga, Bosco, Terzi, Costa Romana e San Marco, alberata per dentro ed abbondante di acque perenni”. La lite giudiziaria verteva sui diritti di bagliva e portolanìa.
La Bagliva o Baliva costituiva l’esazione di diritti da parte delle Autorità pubblica preposte per applicazione di bolli alle bilance, alle stadere e alle caraffe, in base alle unità di misura usate nel luogo. Tale tassa, non sempre periodica, era associata al controllo da parte della Pubblica Amministrazione degli attrezzi utilizzati per il peso degli aridi (grano, granone orzo, avena, ecc.), il volume dei liquidi e ciò a salvaguardia dei diritti dei consumatori nei confronti dei venditori e reciprocamente;
La Portolanìa era invece il pagamento del dazio che si doveva soddisfare da parte di chi occupava, temporaneamente o stabilmente, un’area comunale a scopo di commercio.
Michele ha già ricordato la sentenza n. 76, pronunciata “a dì 13 giugno 1810”, nella quale si legge, tra l’altro, che “avendo gli antichi ex-baroni voluto costruire de’ molini, ed avvalersi delle acque e del terreno del Comune, erasi obbligato a corrispondere annue tomola 50 di grano per titolo di canone, ed un capone ancora, e che avendo soddisfatto tomoli 36 di grano, obbligarsi dovea alla corresponsione del capone o importo di esso per la concessione del 1603…che avendo di propria autorità costruito nella stessa difesa (zona recintata sottratta al pascolo) un altro molino, rilasciar si dovea al Comune, perché fatto nel suo feudo, pagandogli l’affitto o fruttato che poteva dare la quantità del terreno occupato per detto molino”.
Sempre dalla sentenza apprendiamo che si stabilì ”abolirsi la prestazione di un carro di paglia da ogni massaro, commutata poi in grana 20 l’anno, ed abolirsi ancora tutte le altre in doverose prestazioni ed angarie”.
A pronunciare questa sentenza fu la Commissione cosiddetta feudale, che si occupava proprio dei numerosi contenziosi tra i baroni e le università o comuni a seguita della promulgazione del Decreto eversivo della feudalità da parte di Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone e re di Napoli dal 1806 al 1808, che si concretizzò poi proprio nel 1810 con Gioacchino Murat. Il Decreto abolì le istituzioni feudali con tutte le attribuzioni, ma soprattutto vennero abolite anche tutte le opere e prestazioni personali che i possessori di feudi riscuotevano o pretendevano dalla popolazione e dai cittadini.
Il Marchese Giovanni Capobianco il 14 febbraio del 1773 sposò Marianna Pacca dei Marchesi di Matrice (Campobasso). Da loro nacquero Raffaele (il 1° aprile 1776) e Domenico, ancora vivente nel 1859, anno in cui venne pubblicato il Vol. I dell’opera del Ricca. (Il Vol. II fu pubblicato nel 1862, il III nel 1865, il IV nel 1869. L’intera opera fu poi ripubblicata nel 1879).
Raffaele Capobianco, in data 11 maggio 1800 “impalmò in Napoli Beatrice della Quadra Carafa figliuola di Domenico Antonio, principe di San Lorenzo, e di Anna Maria Galluccio de’ duchi di Tora; ed alla morte del padre divenne egli il 7° Marchese di Carife. Trapassò costui in Napoli il dì 27 novembre del 1826, rimanendo superstiti sette figli di età maggiore, cioè Giovanni, secondo di tal nome, Concetta ch’è andata in isposa al Cavalier Niccola Cappella, Domenico il quale morì lasciando de’ figli, Marianna che fu rapita a’ vivi in età giovanile ed essendo ancor nubile, Teresa maritata col Conte Baldini di Rimini e già morta anch’essa, e finalmente Felice ed Antonio i quali oggi vivono entrambi con figli. Il menzionato Giovanni 2°, che qual primogenito, fu Marchese di Carife sposò in prime nozze Felicita Capobianco, sua zia, e figliuola di Giuseppe, fratello di Giovanni 1°; e da questi coniugi sortì i natali Raffaele 2°, che, essendo morto il genitore, è il 9° attuale Marchese di Carfe”.
Qui si ferma la precisa e dettagliata relazione di Erasmo Ricca sul feudo di Carife.
Ma possiamo continuarla consultando i Registri di Anagrafe del nostro Comune, cosa che mi è stata permessa di fare da parte del nostro Sindaco.
Nell’Anagrafe del Comune incontriamo Dionigi Filomeno Capobianco, nato il 7 giugno 1844 dal Marchese Don Giovanni Marchese Capobianco di anni 36 e da Donna Lucia Addimandi, anch’essa di anni 36. Nel 1876 sposò Concetta Leone e fu consigliere Comunale e Sindaco facente funzioni di Carife ripetutamente, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900.
Don Giovanni Capobianco ebbe anche un altro figlio, Raffaele, che sposò Raffaela Carsillo. Un figlio di Raffaele, Giovannantonio, nato il 12 giugno 1861, morto il 4 giugno 1929, di professione agricoltore, il 19 marzo 1889 sposò Filomena Novia, dalla quale, il 6 giugno 1906, nacque Desdemone, fornaciaio, che il 21 gennaio 1928 sposò Maria Luigia Clemente. Desdemone, uomo serio e grande lavoratore, stimato e rispettato da tutti i Carifani, morì a Carife il 17 ottobre 1994. Sono tuttora viventi in Carife due figlie di Desdemone: Filomena e Marietta; gli altri due, Italo Paolo e Rita non sono più tra di noi.
Da Dionigi Filomeno Capobianco e da Concetta Leone, il 16 gennaio 1879, nacque Lucia (le fu dato il nome della nonna), che il 14 maggio 1905 sposò l’Avv. Michele Contardi di San Sossio Baronia, che fu deputato e fervente antifascista. Rimase vedova il 10 luglio 1936.
L’Avv. Cav. Michele Contardi (Contardo?) era nato a San Sossio Baronia da Giovannantonio e Margherita Coppola; Da una sua locandina elettorale, ritrovata in uno degli ambienti del Palazzo, apprendiamo che fu “Ex combattente, già deputato provinciale di Avellino, componente la Commissione di Beneficenza, primo eletto nel Consiglio Provinciale, Avvocato valorosissimo, candidato nella lista di opposizione costituzionale Stella a 5 punte porta il n. 4”.
Fu proprio lui, unitamente alla moglie, a voler mettere a disposizione gratuitamente, nel 1925, lo spazio necessario alla costruzione del Monumento ai Caduti di Carife, chiedendo solo che non fossero piantati alberi di alto fusto, per non privare gli abitanti del Palazzo del godimento del bel panorama che si può ammirare dai suoi balconi, che si affacciano sulla parte più bella di Carife.
I due ebbero 4 figli: tre femmine ed un maschio.
La prima, LEONORA CONCETTA ANNITA MARGHERITA (“Donna Ghita”) nacque il 6 giugno 1907 e morì in Avellino il 7 febbraio 1972;
La seconda, OLGA FLORA ELINA (Donna Olga) , nacque il 6 maggio 1909 e morì ad Avellino il 19 febbraio 1984;
Il terzo, GIOVANNI ANTONIO LORENZO DIONIGI (“DON NINO”), nacque il 10 agosto 1911. Il 9 ottobre 1948 sposò in Corbara (SA) Amelia Giovanna De Vito. Morì a Battipaglia, senza avere avuto figli, il 17 maggio 1983;
La quarta, DORA LINDA IDA FLORA nacque il 13 febbraio 1913. Il 20 giugno 1937 sposò in Carife il Dottore Lorenzo Ferrante. E’ morta ad Avellino il 21 novembre 2009.
L’Amministrazione Comunale di Carife, Sindaco Francesco Paolo Giangrieco, volle intitolare la via omonima (Già Via dei Monti), che porta al Palazzo Marchesale, all’illustre Avvocato, che era stimato, rispettato e ben voluto da tutti i cittadini di Carife che ebbero l’onore di conoscerlo, anche per la sua attività professionale.
Don Michele Capobianco, come era chiamato da tutti, riceveva nel suo studio i clienti provenienti da ogni parte della Baronia e anche da fuori: legavano cavalli, asini e muli nel cortile e aspettavano pazientemente il turno per avere dall’Avv. preziosi consigli e suggerimenti o si affidavano a lui per essere difesi nelle controversie e vertenze giudiziare.
Si racconta ancora a Carife che, per sfuggire ad un pestaggio organizzato dai fascisti, partiti da Mirabella Eclano, fu aiutato dalla moglie a fuggire attraverso il soffitto e si rifugiò nella boscaglia della sovrastante montagna della Croce.
Lucia Capobianco, “la marchesina Lucia” come viene detta nell’atto di matrimonio, ultima discendente dei Marchesi di Carife, morì l’8 aprile 1962.
Scrive il Dott. Paolo Salvatore nei suoi Appunti di Storia di Carife, che portano la data del 1953, scritti mentre era ancora in vita “Donna Lucietta Capobianco”, nobildonna umile, cortese e gentile con tutti:
“La famiglia Capobianco erede del titolo, non essendovi alcun maschio si è estinta con la morte del marchese Dionigi (9 aprile 1916) per altri con la morte del fratello Raffaele, il quale Dionigi a cortissimo di beni materiali ed anche d’istruzione serbava però nel sangue il retaggio del suo veramente nobile casato”.